MARK PADMORE, tenore – ROGER VIGNOLES, pianoforte

L’arte del canto
Turno A, C

SCHUBERT II: Winterreise, D. 911 (ciclo di Lieder su poesie di Wilhelm Müller)

Il ritorno a Müller, quattro anni dopo la Schöne Müllerin, avvenne nel mezzo della straordinaria evoluzione stilistica che l’anno seguente avrebbe portato Schubert al traguardo della piena maturità con capolavori come le tre ultime Sonate, la Sinfonia in do maggiore, la Messa in mi bemolle maggiore, il Quintetto per archi, i Lieder heiniani dello Schwanengesang: lo sbocciare di tante speranze poi crudelmente troncate dalla morte. Quelle poesie devono essergli capitate tra le mani per caso, come era accaduto appunto quattro anni prima per il ciclo della Schöne Müllerin, e non è escluso che fin da allora il musicista avesse cominciato ad interessarsi al nuovo progetto. Proprio nel 1824 infatti Müller aveva pubblicato l’intero ciclo nel secondo volume delle Gedichte aus den hinterlassenen Papieren eines reisenden Waldhornisten (“Poesie dalle carte postume di un girovago suonatore di corno”).
La composizione impegnò Schubert in due fasi distinte, come testimoniano i manoscritti delle raccolte di dodici Lieder ciascuna, datati rispettivamente febbraio e ottobre 1827. Anche la pubblicazione curata dall’editore viennese Haslinger avvenne in due fascicoli separati, il primo nel febbraio e il secondo nel dicembre del 1828: negli ultimi momenti di lucidità, sul letto di morte, Schubert continuò a correggere le bozze di stampa senza però riuscire a veder pubblicata la raccolta intera. Attraverso i ricordi di Joseph von Spaun e Franz con Schober conosciamo le riserve con cui furono accolti i nuovi Lieder, giudicati troppo tetri e concettosi, lontani dalla spontanea freschezza che gli amici di Schubert avevano amato. Sappiamo però anche della fiducia incrollabile del compositore, che fino all’ultimo giudicò il ciclo il suo capolavoro liederistico.
Va subito rilevata nei versi della Winterreise una qualità letteraria decisamente superiore a quella della Schöne Müllerin. Analogo il tema del viaggio, caro a Schubert fin dai tempi del Lied Der Wanderer (ottobre 1816) e qui spinto alle sue estreme conseguenze simboliche. Ma se nella Müllerin persiste una pur esile traccia narrativa – la storia che conduce attraverso illusioni e delusioni il giovane mugnaio alla morte – ora il tema del Wandern è presentato nella chiave univoca di una smarrita desolazione. La storia è già compiuta all’inizio, o almeno il percorso è già segnato: il primo Lied Gute Nacht è in realtà un commiato doloroso e ironico alla donna infedele ma anche alla terra, alla vita, alla realtà. I primi due versi (“Sono giunto straniero, straniero riparto”) fungono da epigrafe per tutto il ciclo e anticipano il senso angoscioso del viaggio senza meta, dell’impossibilità di trovare riposo, del percorso crudele dove ogni approdo costituisce un nuovo punto di partenza. Così tutte le stazioni del viaggio-simbolo risultano di passaggio. Perfino l’ultima, spalancata e subito dissolta su un abisso senza speranza, delineando come una spirale aperta sul vuoto, la metafora poetica e musicale dell’intero ciclo.
La riduzione degli elementi narrativi, dove perfino la causa del viaggio finisce per perdersi in un passato lontano e privarsi di senso, la presenza del viandante senza volto e senza connotati psicologici determinati, rivelano la natura simbolica della Winterreise e ne influenzano la struttura compositiva. Qui le categorie della poetica schubertiana sono più che altrove esplicite perché estremizzate: è la musica a suggerire, con il ricorrere ossessivo di cellule combinate secondo una fantasia imprevedibile, i termini di un’appropriazione che va molto oltre le prospettive indicate da Müller e gli stessi orizzonti del primo Romanticismo. Vi si coglie soprattutto la vanificazione del concetto spazio-tempo e quindi paradossalmente di “viaggio”: questo girovagare siglato da formule ritmiche di movimento, ora di marcia (nn. 1, 3, 6, 7, 9, 10, 12, 20, 21, 22), ora di corsa sfrenata (nn. 2, 4, 8, 13, 16, 18), ora perfino di danza (nn. 11, 15, 19), non mira al raggiungimento di una meta, sembra svolgersi circolarmente e forse è solo frutto della mente sconvolta del protagonista.
La musica indugia spesso a descrivere la scena del viaggio, gli elementi naturali (acqua, vento, neve, tempesta) e i pochi esseri viventi incontrati, ma svolge anche la funzione di trasformarli in segnali misteriosi, in premonizioni ricevute in sogno senza precisi contatti con la realtà. Così nel tono del monologo passato e presente, movimento e sosta, realtà e sogno finiscono per confondersi e il canto spiegato spesso si frantuma in declamazioni di recitativo. Il contributo del pianoforte è poi determinante. La scrittura pianistica, sempre interessante nei Lieder di Schubert, conosce nella Winterreise momenti di intuizione timbrica eguagliati solo negli approdi estremi dei canti di Heine dello Schwanengesang. Il pianoforte sottolinea e talvolta anticipa il significato dei versi svelandone il sotterraneo valore simbolico in un contrappunto incessante di immagini e di sentimenti. E tutto questo con soluzioni che non potrebbero essere più semplici ed essenziali. Le increspature leggere e l’ebbrezza sensuale dell’introduzione al mitico Lindenbaum, il moto uniforme e ipnotico della Krähe, i brumosi addensamenti accordali di Im Dorfe, la frantumazione avveniristica di Letze Hoffnung, la fissità desolata delle quinte vuote nel conclusivo Leiermann costituiscono solo alcuni degli esempi più celebrati della capacità di concentrare in una formula minima il senso di un paesaggio esterno ed interiore di incredibile complessità.
Rispetto alla rigorosa stroficità dei Lieder della Müllerin, nella Winterreise Schubert alterna modelli formali diversi adeguando la struttura di ogni canto alle sollecitazioni del testo; talvolta compie addirittura l’operazione inversa, adattando la forma poetica alla costruzione musicale mediante la ripetizione di alcune parole chiave o di alcuni versi in rapporto alla coerenza interna del ciclo. Ogni Lied è un microcosmo compiuto, diverso da tutti quelli che lo precedono e lo seguono, ma nello stesso tempo è anche investito di un significato più vasto nell’economia generale dell’opera. Questa unità va ben oltre la semplice constatazione del rapporto tra re minore-maggiore di Gute Nacht e di Einsamkeit, primo e ultimo della prima parte, e il la minore del Leiermann che idealmente riconduce alla tonalità di inizio, come se il viaggio potesse ricominciare ormai definitivamente sottratto alla realtà nel canto straniato di un suonatore ambulante. È proprio quella fitta rete di richiami, di associazioni, di segnali allusivi fondata su elementi linguistici poveri che realizza nella Winterreise una compatta aderenza fra struttura e significati assicurando unità al ciclo. In questa organizzazione capillare, lontana da qualsiasi modello precedente e semmai prossima al futuro linguaggio mahleriano, emerge il valore dato ad ogni più piccolo segno compositivo: un accento, una legatura, una piccola variante melodica non hanno solo un significato espressivo ma rimandano sempre al significato poetico e formale del ciclo.
Per questo la Winterreise costituisce probabilmente il cuore di tutta l’opera schubertiana, la chiave per penetrare i grandi capolavori che videro la luce in quei due anni di frenetica, disperata creatività. Il Wanderer della Winterreise non conosce la trasfigurazione consolatoria del protagonista della Schöne Müllerin, si incammina verso strade sconosciute e guarda lontano, molto oltre l’epoca che segnò l’inizio del suo viaggio e perfino oltre quelle immediatamente successive. Sembra tendere la mano ai musicisti dell’ultimo scorcio di secolo, a Wolf e Mahler, che in modo diverso per primi seppero intenderne il messaggio cosmico di solitudine e di angoscia.

Nota di programma da cura di Giuseppe Rossi.
Programma di sala del 25 febbraio 2012, Archivio storico degli Amici della Musica di Firenze