MARK PADMORE, tenore – ROGER VIGNOLES, pianoforte

L’arte del canto
Turno A, C

BEETHOVEN: Mailied op. 52 n. 4; Neue Liebe, neues Leben op. 75 n. 2;
Adelaide op. 46; An die ferne Geliebte op. 98.
SCHUBERT III: Schwanengesang

Mailied op. 52 n. 4
L’autore di questa lirica è il maggior poeta tedesco: Goethe, che la scrisse nel 1771 nella felicità dell’idillio di Sesenheim. Beethoven non conosceva ancora il suo grande contemporaneo, poiché questo Lied è composto all’incirca verso il 1796, ma si nota il particolare riguardo con cui ogni volta è introdotto, con un efficace preludiar del piano, il gruppo delle strofe, raggruppate tre a tre. Il musicista è riuscito a trasferire nel canto la gioia del poeta che vede la natura e l’amata concordi in una specie di esplosione di felicità.
Programma di sala del 23 novembre 1963, Archivio storico degli Amici della Musica di Firenze

Adelaide op. 46
Adelaide, su testo del poeta tedesco Friedrich von Matthisson (1761-1831), composta pochi anni dopo l’arrivo a Vienna del giovane Beethoven e pubblicata nel 1797 come op. 46, non è infatti un semplice Lied, ma una sorta di breve cantata per voce e pianoforte. Beethoven volle dedicare questa pagina – che fu immediatamente salutata da uno straordinario successo, tanto da apparire ben presto in una grande quantità di trascrizioni, inclusa quella pianistica di Liszt – allo stesso autore del testo: il quale da parte sua volle restituire la gentilezza, vari anni dopo (nel 1815), scrivendo: “Vari maestri hanno voluto dare vita musicale a questa mia piccola fantasia lirica; ma nessuno, secondo il mio interiore convincimento, ha messo il testo in tanta profonda ombra quanto il geniale Ludwig van Beethoven”. Le cinque strofe del testo di Matthisson, che svolge il tema dell’amore attraverso una figura femminile idealizzata – un testo, come in generale l’opera poetica di questo autore, coronato da una grande ammirazione da parte dei contemporanei – sono organizzate da Beethoven in due distinte sezioni: la prima, “Larghetto”, che mette in musica le prime tre strofe, partendo dalla tonalità di base di si bemolle maggiore, per muovere successivamente verso più complessi e inattesi orizzonti tonali; la seconda, in tempo veloce (“Allegro molto”), conclude luminosamente, nel carattere di una grande aria, la composizione, riaffermando saldamente la tonalità iniziale di si bemolle).
Nota di programma da cura di Francesco Dilaghi.
Programma di sala del 24 ottobre 2010, Archivio storico degli Amici della Musica di Firenze

An die ferne Geliebte, op. 98
Spesso ingiustamente relegato ai margini della produzione beethoveniana (almeno a giudicare dalla sua reale presenza nelle nostre sale da concerto), il corpus della musica vocale da camera del sommo musicista trova proprio nel breve ciclo recante l’evocativo titolo An die ferne Geliebte (“All’amata lontana”) il suo momento più alto, sia per la qualità intrinseca degli esiti artistici, sia per il significato innovativo della concezione formale. Capolavoro della piena maturità (nacque nell’aprile 1816, quindi all’inizio dell’ultima stagione creativa, in concomitanza cronologica con la Sonata per pianoforte op. 101, non a caso anch’essa inaugurante una nuova concezione, più unitaria e ciclica, della forma-sonata), questa “ghirlanda” di sei Lieder inaugura un genere che avrà largo séguito nei successivi musicisti dell’Ottocento, da Schubert e Schumann fino a Brahms, Wolf e Mahler, e cioè quello del ciclo liederistico unitario. La concezione beethoveniana va tuttavia al di là anche di quella schubertiana della Schöne Müllerin e della Winterreise, dal momento che i singoli Lieder che costituiscono il ciclo non sono conclusi o separati, ma sempre collegati direttamente l’uno all’altro da un intervento più o meno lungo del pianoforte. Escludendo l’Arianna a Nasso di Haydn (che di fatto non è un ciclo liederistico ma una grande scena drammatica affidata alla dimensione cameristica della voce con accompagnamento di pianoforte), An die ferne Geliebte non ha precedenti nel genere della musica vocale da camera e apre la strada direttamente ai capolavori schumanniani degli anni ‘40; e non è un caso che proprio Schumann, negli anni del suo ardente amore per Clara, abbia voluto citare il tema finale di questi ciclo – in corrispondenza dei versi “Accetta allora questi canti / che ti offro, o mia amata” – nella sua Fantasia per pianoforte op. 17, del 1836, come ideale dedica.
L’autore del testo – Alois Jeitteles, oscura figura di medico e poeta – probabilmente rispose ad una sollecitazione dello stesso Beethoven, confezionando sei poesie che svolgono, in termini staticamente lirici e tutto sommato convenzionali, il tema della nostalgia per la separazione dall’amata, attraversando vari stati d’animo – dalla malinconica rassegnazione al fiducioso anelito ad una futura felicità – e costruendo le situazioni poetiche col ricorso a quegli elementi della natura – cielo, monti, tramonti, fiori, ruscello e uccellini – che saranno tipici del mondo poetico del primo Ottocento, e di quello schubertiano in particolare. Non è dato sapere se la scelta di questo soggetto rispecchiasse una reale vicenda sentimentale di Beethoven: ma è lecito supporre, come molti studiosi hanno fatto, che quest’opera singolare e possente riecheggi gli struggimenti per la misteriosa figura dell’”Immortale Amata” e che ancora a lei siano idealmente offerti questi “canti” appassionati.
La concezione musicale di questo ciclo si rivela estremamente coerente e sottolinea in vari modi la sua forte idea unitaria: oltre ai già ricordati collegamenti del pianoforte tra un brano e l’altro, che di fatto eliminano ogni soluzione di continuità nel flusso della musica, Beethoven ricorre ad un itinerario tonale, per così dire, “speculare”: i primi tre Lieder partono infatti dalla tonalità di mi bemolle maggiore per arrivare a quella di la bemolle, mentre gli altri tre svolgono l’itinerario inverso (passando, rispettivamente, attraverso sol maggiore e do maggiore). A suggello, infine, di questa evidente idea unitaria (ma comunque sempre vivificata da una ricca gamma di situazioni poetiche ed espressive, grazie all’ammirevole aderenza al testo poetico della musica e dell’accompagnamento pianistico in particolare), l’ultimo Lied ripropone il tema iniziale, gettando le basi per quella concezione ciclica della forma che sarebbe stata ripresa e sviluppata solo nella seconda metà del secolo.
Nota di programma da cura di Francesco Dilaghi.
Programma di sala del 21 gennaio 2007, Archivio storico degli Amici della Musica di Firenze

Schwanengesang, D. 957
I 14 Lieder pubblicati sotto il titolo apocrifo di Schwanengesang (“Canto del cigno”), senza dubbio uno dei vertici della produzione liederistica schubertiana, appartengono alla serie delle possenti, misteriose creazioni degli ultimi mesi di vita del musicista, insieme ad altri capolavori quali le tre Sonate per pianoforte, l’Ottetto e il Quintetto per archi. Nel dicembre 1828, un mese dopo la morte, il fratello Ferdinand, fedele “amministratore” dei suoi preziosi lasciti di opere inedite, consegnava all’editore Haslinger sette Lieder su testo di Ludwig Rellstab e sei su testo di Heinrich Heine (questi ultimi composti quasi certamente tra l’agosto e il settembre di quell’ultimo anno di vita); già nel gennaio successivo l’editore ne annunciava la pubblicazione per sottoscrizione, aggiungendovi – non si bene, in realtà, per quale motivo – un Lied isolato su testo di Johann Gabriel Seidl (che nell’esecuzione odierna è omesso, mente è aggiunto un altro Lied su testo di Rellstab, Herbst, composto nell’aprile del 1828, quindi idealmente e cronologicamente omogeneo al primo gruppo di Lieder della raccolta, ma a rigor di termini non appartenente allo Schwanengesang); ma ancor più difficile da capire è il senso della distribuzione di questi 14 Lieder in due fascicoli: sei su testi di Rellstab nel primo, uno su testo di Rellstab, sei su testo di Heine e l’unico su testo di Seidl nel secondo. In questi termini e, appunto, con il titolo apocrifo e un po’ stucchevole di Schwanengesang queste composizioni furono dunque pubblicate nell’aprile 1829.
È di fatto impossibile sapere se dietro a questi due gruppi di Lieder su poesie di uno stesso autore si celasse un progetto di due più ampi cicli, sul modello della recente Winterreise; è comunque un dato di fatto che i sei Lieder su testo di Heine, in termini forse anche più accentuati rispetto a quelli su testo di Rellstab, mostrano una evidente omogeneità e organicità di temi poetici e musicali: vi domina quasi incontrastato il più desolato pessimismo di un uomo che non ha più un futuro davanti a sé, che vede ormai la morte in viso, circondato da porte chiuse, da ricordi di battaglie perdute e da rimpianti di un passato migliore ma in nessun modo recuperabile.
Quanto alla scelta dei due poeti, si sa solo che la “scoperta” di Rellstab avvenne tramite Schindler, il fedele amico ed esegeta di Beethoven, che Schubert frequentò durante l’estate del 1827, pochi mesi dopo la morte del grande maestro, mentre quella di Heine avvenne tramite un amico, il barone Schönstein, che con ogni probabilità prestò a Schubert il Buch der Lieder, pubblicato nel dicembre 1827 (oppure la raccolta isolata Die Heimker, dal momento che tutte e sei le poesie scelte per queste composizioni sono tratte solo da questa e non da altre incluse nel Buch der Lieder). Vale poi la pena ricordare che anche i titoli dei sei Lieder sono dello stesso Schubert, dal momento che le poesie di Heine ne sono prive. È senza dubbio significativo, comunque, che il titolo della raccolta da cui Schubert attinse i sei testi – Die Heimkeher (“Il ritorno”) – riprenda il tema liederistico, schubertiano per eccellenza, del viaggio, dell’assenza, dell’amara disillusione.
Anche i Lieder su testo di Rellstab ripropongono alcuni temi centrali del mondo poetico schubertiano e in particolare degli ultimi Lieder: il ruscello, il viaggio, il dolore per la lontananza, la perdita dell’amata, il rimpianto, senza tuttavia giungere a quei toni di terribile desolazione che troviamo nei Lieder di Heine. In Liebesbotschaft (“Messaggio d’amore”) il fervido fluire dell’accompagnamento pianistico suggerisce l’idea dell’acqua e il classico tema del ruscello al quale sono affidate le considerazioni d’amore ci ricollega da un lato alla Schöne Müllerin, ma anche al terzo numero del ciclo beethoveniano che apre il programma odierno. Cupa e lugubre è invece l’introduzione pianistica a Kriegers Ahnung (“Presentimento del guerriero”), in do minore, una breve ballata che descrive i timori, la nostalgia e presentimenti di morte alla vigilia della battaglia; e nel conclusivo “Gute Nacht” non è possibile non pensare all’omonimo Lied che apre la Winterreise. Frühlingssensucht (“Nostalgia di primavera”), in si bemolle maggiore, è invece un breve Lied strofico che descrive con fervido entusiasmo le bellezze della primavera, per poi passare improvvisamente, alla quinta ed ultima strofa, al modo minore, laddove a tutto ciò si contrappone il dolore del poeta. Con Ständchen (“Serenata”), in re minore, ci troviamo di fronte ad una delle più celebri e felici invenzioni melodiche di Schubert: sul quieto e cullante accompagnamento del pianoforte si svolge un canto d’amore ambientato in un appena evocato notturno, che solo nell’ultima parte si accende di un più appassionato slancio. Aufenthalt (“Sosta”) in mi minore, si pone in termini di netto contrasto rispetto al soave lirismo del Lieder precedente: le battute introduttive del pianoforte che introducono l’ossessivo ritmo di terzine, creano infatti un’atmosfera di cupo pessimismo, di irrimediabile dolore esistenziale, che si rispecchia in una natura dura come le rupi rocciose e terribile come l’impeto del torrente e il bosco nella tempesta. Una situazione poetico-espressiva analoga è quella che caratterizza il successivo brano, Herbst (“Autunno”), in mi minore, brano che – come già accennato – non figurerebbe “ufficialmente” nello Schwanengesang; il fervido accompagnamento pianistico fa da sfondo ad una breve composizione strofica che svolge il tema dello struggente rimpianto per la trascorsa primavera e per l’amata perduta. In der Ferne (“In lontananza”), in si minore, svolge i temi – del tutto analoghi a quelli della Winterreise – del rimpianto, del doloroso allontanamento, della perdita dell’amore; la pagina inizia su un faticoso ritmo di accordi, ma si apre sull’ultima strofa ad un mesto ma più consolatorio, per quanto effimero, si maggiore. Il tema del viaggio, nel momento dell’addio, è invece vissuto con ironica e un po’ inquietante disinvoltura in Abschied (“Commiato”), in mi bemolle maggiore; l’accompagnamento monocorde del pianoforte, in crome staccate, si vela però di infinite sfumature, complici anche le inflessioni dell’itinerario armonico, che suggeriscono i diversi e i più riposti stati d’animo nel lungo e quasi puntiglioso elenco dei saluti.
Ultimo Lied schubertiano ispirato ad un personaggio mitologico, Der Atlas (“Atlante”), in sol minore, apre la serie dei Lieder su testo di Heine ed esprime la sorda e pure ancor possente e orgogliosa rabbia di colui – ideale fratello di Prometeo e dello stesso Schubert – che è condannato a farsi carico di tutti i dolori del mondo come punizione per la sola colpa di aver cercato la felicità. Circola per tutta la pagina, nel registro grave del pianoforte, l’intervallo dissonante di quarta diminuita – quasi un ruggito – mentre la seconda strofa ha un improvviso sbalzo di umore e di atmosfera con l’inattesa modulazione alla tonalità lontana di si maggiore. Una situazione di lirica malinconica per l’amore perduto è il tema del secondo Lied, Ihr Bild (“La sua immagine”), in si bemolle minore, che Schubert esprime con una assoluta economia di mezzi formali ed espressivi, a partire già dal nudo unisono dei primi due versi; sostenuta da semplici accordi, la linea melodica si svolge assorta e rassegnata, fino all’impennata dell’ultimo verso, preparato da un motivo in ottave nel basso come eco lontana di quello del Lied precedente, dove troviamo il doloroso punto culminante su quelle ultime parole che illuminano il senso della poesia. Unica debole schiarita nel paesaggio cupo e desolato di questi sei Lieder heiniani, il brano successivo – Das Fischermädchen (“La fanciulla pescatrice”) – , nella morbida tonalità di la bemolle maggiore, si svolge su un ritmo di scorrevole barcarola, quasi pulsazione di un cuore che ancora riesce a immaginare le consolazioni dell’amore. «Un qualche sogno di felicità?», scrive Brigitte Massin, «Senza dubbio, ma fragile come la modulazione a sorpresa a do bemolle maggiore per la strofa centrale.» Un sordo tremolo nel registro grave del pianoforte apre il Lied successivo, Die Stadt (“La città”), in do minore, subito seguito da un misterioso, nebbioso arpeggio che si rivela la cifra ricorrente di questa breve, enigmatica composizione. Anche qui, come in Ihr Bild, il senso della poesia – ancora una volta il rimpianto per una felicità perduta per sempre – avviene nell’ultimo verso, con una dolorosa impennata melodica (sol acuto sulla parola Liebste, “amata”) e dinamica (un violento quanto inatteso fortissimo, dopo il quale la nebbia del misterioso arpeggio fa di nuovo calare il suo grigio velo). Di nuovo il mare e la luce nebbiosa del crepuscolo fanno da sfondo al brano successivo, Am Meer (“Al mare”), in do maggiore, con una scrittura di scuri, severi accordi e poi di tremoli al pianoforte che sottolineano ancora una ideale continuità con i brani precedenti. La situazione, come spesso in Heine, si definisce verso la fine della poesia: le lacrime della donna, il gesto impulsivo dell’uomo che le beve, e la conseguente condanna alla morte per amore, per avvelenamento d’amore, concetto che doveva colpire la mente di Schubert in quegli ultimi mesi di vita con una forza devastante. Il punto più alto di questo clima di vuoto e di desolazione è raggiunto con l’ultimo brano, Der Doppelgänger (“Il sosia”), e certo l’analogia di metro (¾) e di tonalità (si minore) con Der Leiermann (“L’uomo con l’organetto”), pagina conclusiva della Winterreise, non può essere
casuale. Un angosciato monologo, un senso di ormai completo straniamento dalla vita e dall’esistenza reale, in un paesaggio ormai spogliato di ogni riferimento naturalistico, un luogo disabitato e quasi pietrificato che riflette un desolato deserto dell’anima. Solo accordi nel registro grave del pianoforte, niente oltre a questo, che disegnano un profilo melodico contorto e doloroso, e sostengono un recitativo della voce quasi sillabico, spoglio di ogni tradizionale attributo del canto, che giunge al punto culminante quando la luce della luna mostra all’attonito osservatore la propria stessa immagine: un sol, anche in questo caso, il vertice della linea melodica, sostenuto da un accordo lacerante, marcato fff, al pianoforte.
Nota di programma da cura di Francesco Dilaghi.
Programma di sala del 30 gennaio 2011, Archivio storico degli Amici della Musica di Firenze