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§ Focus musicale | Beethoven, Schubert, Bartók, Kurtág, Liszt

§ Focus musicale | Beethoven, Schubert, Bartók, Kurtág, Liszt

In occasione del concerto in streaming di sabato 24 aprile, dove viene riproposto il concerto che il pianista Zoltán Kocsis (1952-2016) tenne per gli Amici della Musica di Firenze il 31 gennaio 2004, pubblichiamo le note di sala a cura di Francesco Dilaghi conservate nel nostro archivio storico.

Ludwig van Beethoven (1770-1827)
Sonata n. 27 in mi minore, op. 90

La Sonata op. 90, pubblicata nel giugno 1815, si colloca, nel quadro complessivo delle trentadue sonate di Beethoven, in una posizione isolata, dato che giunge a quattro anni di distanza dalla sonata precedente, l’op. 81a (“Les Adieux”), e precede di quasi due anni la successiva, l’op. 101 (composizione questa con la quale si è soliti far iniziare la serie delle ultime sonate). Ma questo isolamento è anche rintracciabile nella singolarità delle stesse connotazioni stilistiche, a cominciare dalla sua stessa articolazione in due soli movimenti. Nonostante la maggior distanza cronologica, la Sonata op. 90 è infatti più facilmente riconducibile al momento delle sonate precedenti che non a quello delle successive, per esempio alla Sonata op. 78, anch’essa in due movimenti. Il primo, in forma-sonata, si presenta come una pagina formalmente concisa, e tuttavia dominata da una accentuata ricerca di espressione (“Con vivacità, ma sempre con sentimento ed espressione” è l’indicazione iniziale) che si manifesta in un continuo alternarsi di tensioni e distensioni, di slanci appassionati e di momenti di espansione lirica. Di sapore vagamente schubertiano è invece il tema che domina il rondò successivo, in tonalità di mi maggiore anziché minore, il quale si distende nelle dimensioni e nell’atmosfera poetica, ormai pacificata e libera da drammatiche tensioni.

Franz Schubert (1797-1828)
Sonata in mi minore, D. 566

La produzione di sonate pianistiche di Schubert è concentrata principalmente in due periodi: 1815-19 e 1825-28, e cioè all’inizio e alla fine della sua breve parabola creativa; nel primo periodo tuttavia il confronto con questa forma è decisamente contrastato e in qualche modo sperimentale, se si pensa che solo sei sonate su quattordici furono effettivamente portate a termine. Il numero considerevole di composizioni lasciate allo stato di frammento, tra le quali è possibile trovare piccoli e grandi capolavori accumunati da un ingiusto destino di oblio, ha creato una notevole confusione nella definizione di una cronologia e addirittura della effettiva appartenenza dei singoli movimenti ad una stessa sonata; un caso del genere è anche quello della Sonata in mi minore D. 556, risalente al giugno 1817. Tralasciando le complicate vicende editoriali di questa pagina, resa nota solo dopo la morte dell’autore dal fratello Ferdinand, basterà qui osservare come i due movimenti di questo frammento di sonata – tuttavia perfettamente organico in sé, oltre che di straordinaria qualità musicale – costituiscono una specie di calco proprio della Sonata op. 90 di Beethoven, che con ogni probabilità Schubert ebbe occasione di conoscere e che non a caso apre il programma odierno. Queste analogie si riconoscono non solo nelle tonalità dei due movimenti (mi minore il primo e mi maggiore il secondo), ma anche nel loro stesso carattere espressivo: più volitivo e contrastato l’uno, melodicamente suadente e affettuoso l’altro.

Béla Bartók (1881-1945)
Sonata per pianoforte, Sz. 80

Nella vasta produzione pianistica di Bartók, solo una volta figura il titolo di sonata; essa giunge quando già la maggior parte delle altre composizioni pianistiche – per lo più costituite da brevi forme isolate o spesso raccolte insieme a formare suites – avevano già visto la luce. Essa fu composta nel gennaio 1926 e fu presentata in prima esecuzione dallo stesso autore nel dicembre dello stesso anno. Due anni prima Stravinsky aveva composto la sua Sonata per pianoforte, puntualizzando che il termine “sonata”, per quanto lo riguardava, doveva essere inteso solo nel senso più generale di pezzo da suonarsi su di uno strumento, eliminando cioè ogni riferimento di recupero della forma classica. Non altrettanto può dirsi della Sonata di Bartók, nella quale risulta abbastanza evidente, pur nella sostanziale fedeltà al suo particolare linguaggio armonico e ritmico già evidenziato nella produzione precedente, il riferimento al modello di forma-sonata in senso classico. Tuttavia l’aspetto strutturale, peraltro assai calcolato ed anzi rigoroso, risulta all’esperienza dell’ascolto posto in secondo piano rispetto alla martellante energia ritmica che domina tutto questo primo movimento. Il secondo movimento, “Sostenuto e pesante”, è una pagina enigmatica e severa, costruita secondo uno schema ternario; in particolare il motivo iniziale crea un clima di quasi spoglia desolazione, in un contesto armonico aspramente dissonante. L’energia ritmica e l’insistenza percussiva del primo movimento ritornano in evidenza nel finale, un vivace rondò caratterizzato da un tema principale dal metro decisamente irregolare, che dissolve l’atmosfera pesante e statica del movimento precedente nello spirito della danza popolare.

György Kurtág (1926)
Brani da Játékok (“Giochi”) 

György Kurtág è oggi considerato uno dei compositori più rappresentativi della scuola ungherese. Il suo linguaggio, partendo quasi inevitabilmente dall’esperienza bartokiana, si evolve presto verso soluzioni originali, assimilando alla lezione di Webern elementi del patrimonio popolare e momentanei recuperi dell’armonia tonale.
Játékok (“Giochi”) è una raccolta (ordinata in sei fascicoli che datano dal 1975 a oggi) di brevissimi brani pianistici destinati all’infanzia; essa si inserisce, sia pure con una propria fisionomia originalissima e violentemente antiaccademica, in una illustre tradizione di letteratura musicale dedicata ai piccoli esecutori, che vede nei paesi dell’est europeo (si pensi a Janáček e soprattutto a Bartók con i sei fascicoli del Mikrokosmos) un punto di riferimento di primo piano. In questa raccolta confluiscono come in un variegato contenitore piccoli spunti originali, elaborazioni di elementi tratti da opere di altri musicisti, frammenti e idee estemporanee, riuniti senza particolari intenzioni di organicità. La migliore illustrazione dello spirito che anima queste brevissime composizioni ci è fornita dall’introduzione dell’autore che figura nella partitura: “Lo stimolo per la composizione di Giochi è venuto dall’osservazione del bambino che, mentre suona, è dimentico, di sé stesso e che considera il pianoforte come un giocattolo. Con esso compie ogni specie di ricerca: lo accarezza, lo aggredisce, accumula suoni apparentemente incoerenti; se questo stimola il suo istinto musicale, proverà in seguito a riprodurre coscientemente quelle armonie prima trovate per caso. Perciò Giochi non è assolutamente un metodo pianistico, né una raccolta casuale di brani: è piuttosto una possibilità di sperimentazione. Ci dev’essere gioia nel suonare: una coraggiosa e rapida esplorazione della tastiera, fino dai primi momenti di studio, senza ricerche complicate sui suoni, senza calcolo di ritmi. Suonare è giocare, e presuppone grande libertà ed iniziativa”.

Franz Liszt (1811-1886)
Rapsodia ungherese n. 5 in mi minore (“Héroïde Elégiaque”); Les jeux d’eau à la Villa d’Este; Sunt lacrymae rerum. En mode hongrois (da Années de pèlerinage, III année); Czarde macabre

L’antologia dei brani lisztiani che conclude il programma ci suggerisce un percorso abbastanza desueto (con l’eccezione dei celebri Jeux d’eau à la Villa d’Este), incentrato sulla produzione più matura del grande maestro romantico, e anche più direttamente legata alle proprie origini nazionali; come è noto, infatti, forse nessun musicista più di Liszt può essere considerato operante in una dimensione realmente europea e cosmopolita, ferma restando tuttavia un’attenzione costante, ed anzi crescente negli ultimi anni di attività, verso le proprie radici nazionali ungheresi. Il senso, dunque, di questa antologia lisztiana, dopo l’ascolto dei brani di due grandi rappresentanti della civiltà musicale ungherese del Novecento, è quello della consapevolezza di una evoluzione coerente, fino ai più aggiornati linguaggi della contemporaneità, la cui radice si può ritrovare proprio all’interno di quel mare magnum, sempre generoso di straordinarie sorprese e rivelazioni, che è l’opera di questo grande apostolo del romanticismo.
Il riferimento nazionalistico è dunque evidente nella Rapsodia ungherese n. 5, pubblicata nel 1853, la quale, a differenza delle altre analoghe composizioni, articolate in due parti di contrastante carattere e andamento di tempo, si svolge su un unico registro espressivo, sul ritmo solenne di una marcia funebre.
I due brani seguenti sono invece tratti dal ciclo delle Années de pèlerinage, e specificamente dalla terza raccolta (Troisième année, pubblicata nel 1882), dove emerge più forte che nelle precedenti quella componente religiosa e contemplativa della poetica lisztiana che è caratteristica della sua fase più matura. Ed anche Jeux d’eau à la Villa d’Este, pagina tra le più note e amate di Liszt, si può leggere, al di là dello smagliante virtuosismo e del descrittivismo impressionistico, in chiave mistica; nell’edizione originale si legge infatti una citazione dal Vangelo di Giovanni: “Colui che berrà di quest’acqua non sarà mai più assetato, perché l’acqua che io gli do così sarà per lui fonte di vita eterna”.
Sunt lacrymae rerum – titolo che costituisce una citazione dell’Eneide di Virgilio, riferita alla caduta di Troia – è invece una pagina ispirata dal sentimento politico-nazionalistico; il titolo è il sottotitolo, “En mode hongrois”, ma più ancora il titolo della prima versione, “Thrènodie hongroise” si riferiscono al fallimento dei moti di indipendenza ungherese del 1848-49. I tratti musicali ungheresi sono rappresentati da un caratteristico ritmo di marcia e, sul piano melodico, dall’impiego di scale diverse (con due intervalli di seconda aumentata) rispetto a quelle consuete.
L’antologia si conclude con Czarde macabre, pubblicata nel 1882 con altre due analoghe composizioni riferite a questa tipica danza magiara; si tratta di una pagina singolare e quasi violenta nella sua forza ritmica e nell’asprezza del linguaggio armonico, che è quasi impossibile non mettere in relazione diretta con la Sonata di Bartók, non a caso posta – quasi simmetricamente – a conclusione della prima parte di questo programma.

Francesco Dilaghi

Nella foto: Béla Bartók