
§ Focus musicale | Note di sala del concerto del 17 novembre 2002
In occasione del concerto in streaming di sabato 27 febbraio 2021, con il recital del pianista Paul Badura-Skoda del 17 novembre 2002, pubblichiamo le note di Francesco Dilaghi inserite nel programma di sala del concerto e conservate nel nostro archivio storico.
Franz Schubert (1797-1828)
Sonata in la minore op. 42 D. 845
La Sonata in la minore op. 42 fu composta nel maggio 1825 ed apre la trilogia di sonate pianistiche (le altre sono l’op. 53 e l’op. 78) nate in questo stesso anno; queste tre sonate furono anche le uniche a essere pubblicate durante la vita dell’autore. La pubblicazione dell’op. 42 avvenne l’anno successivo con il titolo “Première Grande Sonate” (mentre sappiamo che, contando anche i frammenti, almeno altri diciassette lavori analoghi la precedono) e con una dedica all’Arciduca Rodolfo d’Asburgo. Durante l’estate del 1825 Schubert intraprese con l’amico cantante Michael Vogl – l’interprete prediletto dei suoi Lieder – un viaggio in Austria nel corso del quale i due musicisti dettero pubbliche esecuzioni di musiche schubertiane: lo stesso autore, che pure non ebbe mai ambizioni di virtuoso, volle tuttavia presentare in questa occasione anche questa nuova sonata.
Il primo e principale tema del primo movimento si annuncia nel suo malinconico incedere in assoluta semplicità, dapprima con una idea melodica all’unisono e quindi, nelle due successive battute, con una serie di sei accordi che restano sospesi sulla dominante; il confronto e il contrasto fra queste due cellule tematiche, nel loro successivo sviluppo, darà vita all’intero movimento, nel corso del quale non figura di fatto un vero e proprio secondo tema concepito come autonomo antagonista al primo. Sul carattere espressivo e sul vero tema poetico di questa pagina – il grande tema schubertiano per eccellenza, quello della morte – non vi sono dubbi, e la riprova è la citazione dal Lied Totensgräber Heimweh (“Nostalgia del becchino”), che è contemporaneo alla sonata. Il secondo movimento – caso unico nell’intero corpus delle sonate schubertiane – è un tema con cinque variazioni in do maggiore. A proposito di questa pagina profondamente espressiva e delicata abbiamo una testimonianza preziosa in una lettera dello stesso Schubert ai genitori, nella quale si definisce in termini generali l’ideale pianistico del musicista: «Ciò che mi dette particolare soddisfazione», scrive dunque Schubert a proposito di una sua esibizione del luglio 1825, «furono le variazioni della mia nuova sonata per pianoforte, che io eseguii non senza successo, tanto che qualcuno mi disse che i tasti sotto le mie dita diventavano voci che cantavano: la qual cosa, se vera, mi darebbe la più grande soddisfazione, soprattutto da quando non posso più sopportare il detestabile pestaggio al quale perfino eccellenti pianisti adesso indulgono, e che non dà piacere né all’orecchio né alla mente». Allo Scherzo, di nuovo in la minore, caratterizzato da una vivace cellula ritmica e da una ricca varietà di percorsi armonici, segue l’episodio centrale del Trio, in tonalità di fa maggiore, dal carattere calmo e sereno di idillio pastorale. L’ultimo movimento, in forma di rondò, si ricollega quanto a carattere e atmosfera espressiva al primo movimento: non vi è niente dell’abituale brillantezza e giocosità dei movimenti conclusivi, ma l’inquieto girare senza pace del tema principale, dal quale, analogamente al primo movimento, sembrano scaturire senza funzione di netto contrasto gli episodi che si succedono tra le varie riprese del tema stesso.
Johannes Brahms (1833-1897)
Sechs Klavierstücke op. 118
La produzione pianistica di Brahms può essere suddivisa in due momenti, distinti nel tempo e nelle forme ma idealmente collegati: il primo è caratterizzato dal cimento con le grandi forme classiche della Sonata e della Variazione, mentre il secondo, che parte dalla raccolta di pezzi dell’op. 76, comprende solo brevi pezzi che potrebbero essere definiti con il termine tedesco di Charakterstück (Hanslick, il celebre critico musicale amico e sostenitore dell’arte di Brahms, li definì “monologhi”), o come “pezzi lirici” (peraltro mai associati a titoli o immagini esteriori, come in Grieg, ma indicati semplicemente con il titolo di Intermezzo, Capriccio, Rapsodia e, solo in due casi singoli, di Romanza e Ballata). Di fatto, le composizioni indicate con questi titoli, assai simili fra loro nell’adesione ad uno schema formale tripartito, hanno un comune punto di riferimento nel modello originalissimo delle Ballate op. 10, tanto che tutte in realtà potrebbero portare in modo plausibile questo titolo.
La raccolta dei Sei pezzi per pianoforte op. 118 fu composta, come anche la successiva raccolta dell’op. 119, nel corso dell’estate 1893 e pubblicata pochi mesi dopo dal fedele editore Simrock; essa si compone di quattro Intermezzi, una Ballata e una Romanza. L’Intermezzo in la minore si apre con un ampio gesto melodico discendente, contrastato da una concomitante figura di arpeggio ascendente; l’indicazione apposta dall’autore è particolarmente indicativa della particolare atmosfera di questa breve pagina: “Allegro non assai ma molto appassionato”; una seconda sezione (ritornellata come la prima) è basata sull’inversione dello stesso motivo iniziale. L’Intermezzo in la maggiore appartiene invece al Brahms più tenero e struggente: su un morbido accompagnamento prende vita una delle melodie più belle e suadenti create dal musicista; la forma è tripartita, con una sezione centrale non meno felice nella tonalità relativa di fa diesis minore, dal carattere appena velato da una sottile inquietudine. La Ballata in sol minore – “Allegro energico” – è invece un momento di carattere eroico ed appassionato, che sembra ricollegarsi alle accensioni romantiche della giovinezza; anche qui fa contrasto un episodio centrale più statico e disteso, nella inattesa tonalità di si maggiore. L’Intermezzo in fa minore reca l’indicazione “Allegretto un poco agitato”, che ben si addice al carattere inquieto e incalzante delle terzine che si alternano tra le due mani; in realtà questo tema iniziale cela una linea melodica a canone tra mano destra e mano sinistra, che sarà ripresa, in un contesto più tranquillo, nella sezione centrale alla tonalità relativa di la bemolle maggiore. La Romanza in fa maggiore – unica pagina brahmsiana di tale titolo – si apre nei toni di una tranquilla espressività, nel tempo non consueto di 6/4; l’episodio centrale – “Allegretto grazioso” – introduce un cambiamento nell’andamento, nel carattere e nella tonalità (re maggiore), anche se il prolungato pedale di re al basso, tipico della “Musette”, si ricollega direttamente in realtà al clima pastorale delle due sezioni estreme. L’Intermezzo in mi bemolle minore, infine, è una delle pagine più intense delle ultime raccolte pianistiche di Brahms; questo “Andante, largo e mesto” si apre con un tema non accompagnato di sole tre note che sembrano girare su se stesse senza una precisa direzione, alle quali si aggiunge poi un cupo arpeggio nel registro grave della tastiera. A questa sconsolata idea principale fa contrasto una parte centrale con una tema più volitivo e quasi eroico, nel quale però subito si insinua il tema iniziale, che domina e conclude la composizione.
Ludwig van Beethoven (1770-1827)
Sonata n. 32 in do minore, op. 111
Se si considera la parabola creativa delle 32 sonate pianistiche di Beethoven, dalle tre dell’op. 2 – composizioni del venticinquenne musicista alla conquista del successo nella grande capitale austriaca – fino alle solitarie e sublimi meditazioni delle tre ultime sonate, le op. 109, 110 e 111, alle quali Beethoven lavorò tra il 1819 e il 1822, non si può che restare sopresi dalle dimensioni e dal significato di una evoluzione che è individuale e interiore piuttosto che storica, in quanto non commensurabile (e di fatto, in realtà, indipendente) con l’evoluzione naturale del linguaggio pianistico nei venticinque anni, peraltro densi di importanti novità, compresi tra il 1795 e il 1820. Prima di arrivare ai profondi messaggi umanitari e religiosi della Nona Sinfonia e della Missa solemnis, e prima delle astrazioni sonore degli ultimi quartetti, il pianoforte rappresentò un preliminare campo di indagine di questo cosiddetto «terzo stile» beethoveniano. La ricognizione sul piano della forma comincia a muoversi non più nell’ambito circoscritto del principio del bitematismo, cioè sulla dimensione orizzontale del rapporto dialettico e dell’atto di volontà, ma si dilata fino a comprendere il principio della variazione e dell’elaborazione contrappuntistica, cioè sulla dimensione verticale, tendendo in questo modo alla estrema e totale indagine su un motivo tematico generatore, messo a confronto solo con se stesso. Ecco dunque il senso del peso preponderante, nell’ultima produzione pianistica beethoveniana, di questi momenti – fughe e variazioni – che nelle tre ultime sonate acquistano anzi la funzione di momento focale e centro gravitazionale della composizione, il quale risulta inoltre spostato verso la fine dell’opera anziché all’inizio, come fino a quel momento nella sonata classica.
Così è anche per la Sonata in do minore op. 111, il grande quanto enigmatico capolavoro che corona la serie delle 32 sonate, opera quasi mitizzata e fonte di una enorme letteratura esegetica (anche di concezione non strettamente musicologica, come nel caso emblematico del capitolo dedicatole da Thomas Mann nel Doktor Faustus). L’impianto in due soli movimenti, già riscontrabile in precedenti sonate, presenta in termini netti la coesistenza di forma-sonata – il primo movimento, “Allegro con brio ed appassionato”, introdotto dal breve quanto carico di lancinanti tensioni “Maestoso” – e di forma-variazioni – l’”Adagio molto, semplice e cantabile”, con la celebre “Arietta” che ne costituisce il tema. Il brusco e violento gesto con cui la sonata si apre – l’intervallo discendente di settima diminuita – è in realtà la cifra unitaria di tutto il primo movimento, che si snoda in una corsa febbrile, disseminata di estremi contrasti dinamici e proiettata, alla fine dell’esposizione, verso la tonalità di la bemolle maggiore. Il profilo ruvido e minaccioso del primo tema domina anche la relativamente breve sezione di sviluppo, mentre il parallelo percorso della riesposizione stempera progressivamente i contrasti iniziali per approdare, ormai placato, verso un rasserenante do maggiore che prelude direttamente all’”Arietta con variazioni”. Il tema di questo secondo e ultimo movimento, di meravigliosa, estatica semplicità, è incentrato melodicamente sulle note della triade perfetta; le successive variazioni, non numerate dall’autore, possono considerarsi cinque o (forse più propriamente) sei, se si fa valer per due la quarta, di fatto doppia. Le prime tre non si discostano dal tempo di base e sviluppano il tema per progressive diminuzioni di valori ritmici; la quarta esaspera la divaricazione timbrica fra registro grave e acuto mentre la quinta introduce l’inquietante, ipnotica variazione sonora del timbro, elemento questo caratteristico del linguaggio pianistico dell’ultimo Beethoven. L’ultima variazione combina insieme parametri già presenti nelle precedenti e porta, attraverso il lento diradarsi del luminoso pulviscolo sonoro del lunghissimo trillo, al ritorno del tema nella sua forma originale, ma ormai trasfigurato in un gesto poetico di struggente, irrecuperabile lontananza.