Il programma che eseguirà nella Stagione degli Amici della Musica di Firenze ha come protagonisti Claude Debussy e Fryderyk Chopin. Quali sono le ragioni per cui ha deciso di eseguire questi due compositori? Quali affinità trova fra i due?
Una caratteristica che può accomunare un po’ questi autori è una tendenza all’introversione. Sono autori sicuramente con un universo interiore sterminato, ma generalmente – non ne voglio fare una regola – orientati più verso l‘introversione. Raramente il pianoforte di questi due autori esplode, letteralmente. Può succedere, ma raramente esplode, raramente grida; semmai parla o canta, se posso dire così.
Un’altra cosa che mi ha sempre affascinato è che l’ultima produzione chopiniana è quella che, non a caso, si sente spesso definire come pre-impressionistica. Penso a un determinato uso delle tonalità da parte di Chopin o di determinati arpeggi. Oppure, a volte, c’è in Chopin quasi un’onomatopea che ricorda l’acqua. Sono tutte caratteristiche che poi si ritrovano compiutamente nell’opera di Debussy. Inoltre, Chopin e Debussy sono autori dalla personalità fortissima, riconoscibilissima, una cifra stilistica praticamente inimitata e inimitabile: Chopin un genio indiscusso dell’epoca romantica, ma sicuramente Debussy uno degli autori che di più ha rotto con la tradizione e che quindi, a suo modo, è un unicum. Sicuramente hanno in comune questa fortissima riconoscibilità e personalità.
Un’altra cosa che mi è sempre piaciuta di questi due autori è che spesso e volentieri celebrano nelle loro opere il senso della lontananza. In Chopin questo avviene come lontananza dalla propria patria, in Debussy invece come celebrazione della lontananza geografica, quindi spaziale e temporale. Spaziale perché Debussy si rifà a stilemi stilistici esotici o arcaici, per esempio alla gloriosa epoca del clavicembalismo francese del Seicento e del Settecento. Ecco, in entrambi ho notato questi tratti in comune.
In generale, come sceglie i programmi da portare in pubblico? Segue criteri specifici per assemblare i brani o ha periodi con focus su autori in particolare?
Questa domanda è molto difficile, ci sarebbe da rispondere per ore. Dico che osservo una molteplicità di criteri e mi baso naturalmente sull’occasione o sul contesto. Ogni concerto è diverso, ogni società che mi invita è diversa e ha proprie tradizioni. Generalmente cerco di soddisfare i fondamenti individuati da Quintiliano nella sua arte retorica, cioè il docere, il movere e il delectare. Il docere è l’insegnare, quindi l’aspetto culturale di un programma: quando possibile e, soprattutto, quando richiesto, occorre cercare di allestire un programma come il curatore di un museo farebbe con una mostra. Quindi trovare un fil rouge, degli aspetti in comune o – perché no? – radicalmente opposti tra le opere presentate. Il movere è non tralasciare l’aspetto del commuovere il pubblico, quindi la veicolazione dei contenuti umani della musica, i quali sono la materia universale che fa dire a molti – sbagliando – che la musica sia un’arte universale. La musica non è affatto un linguaggio universale, ma lo è nella misura in cui comunica dei contenuti umani, quelli che, in quanto tali, sono comuni a tutti gli esseri umani. Ma il linguaggio è assolutamente non universale perché cambia da cultura a cultura. Infine, non tralascio il delectare, cioè l’aspetto spettacolare del divertimento. Ripeto, i contesti cambiano ma non bisogna – oggi in particolare – demonizzare l’aspetto del divertimento del pubblico, della piacevolezza. Spesso si demonizza e si vede con occhio un po’ bigotto l’aspetto più salutare del divertimento, cioè la componente spettacolare del concerto.
Non credo che gli esecutori debbano a tutti i costi confrontarsi e competere con i dischi perché i dischi vincerebbero sempre. Bisogna invece cercare sempre la dimensione del concerto pubblico, che è quella irrinunciabile per la quale il pubblico ancora viene ai concerti.
Può succedere che io abbia un focus per determinati autori ma, quando arriva, arriva perché semplicemente mi nasce da dentro una sensazione di affinità che ritengo di avere con un determinato autore. Spesso mi è capitato con Schumann, per esempio. Anche senza rendermene conto, anche in periodi di tournée in cui sono impegnato a suonare tutt’altro, mi ritrovo a volte a suonare molto Schumann in casa perché è un autore che sento molto congeniale. Anche Liszt, per ovvie ragioni – chi conosce il mio curriculum lo sa – ma ripeto che Schumann è un autore che mi attira moltissimo ed è per questo che lo suono tutte le volte che posso. Fanno eccezione naturalmente i programmi monografici, oppure i tour legati alle mie registrazioni. La mia ultima registrazione era un programma monografico su Liszt che ancora oggi, a distanza di svariati mesi dall’uscita, continuo a presentare in giro per il mondo.
Lei ha una formazione ampia, avendo affiancato agli studi musicali una laurea in filosofia (sull’estetica di Franz Liszt nelle Années de Pèlerinage). In che modo lo studio di questa disciplina ha influenzato la sua attività di musicista? Sta continuando i suoi studi nel campo filosofico?
Come madre di tutte le discipline, la filosofia aiuta a mantenere sempre visibili e presenti alla propria coscienza le cause e i fini ultimi del fare arte. Ho sempre pensato che alla base di tutto il filosofeggiare e del fare arte dell’essere umano vi sia il senso di stupore per il creato, per la realtà del mondo che ci circonda. E mi piace pensare che chi reagisce razionalmente a questo stupore diventa uno scienziato o un filosofo, mentre chi reagisce emotivamente generalmente diventa un artista. Lo studio della filosofia è molto importante e utile, sia per comprendere i contesti storici in cui le opere che eseguiamo videro la luce, sia per individuare meglio il senso di queste opere, in modo da improntare le proprie interpretazioni alla comunicazione di questo senso. Non parliamo poi di tutte quelle composizioni da inquadrare come prodotti stessi di una temperie culturale, per comprendere la quale la filosofia è non solo ottimale ma necessaria.
Ho nominato prima Schumann ma avrei potuto fare la stessa cosa con Debussy, con Liszt, con Beethoven. Avendo questa concezione, la filosofia mi ha aiutato a mantenere il mio umanesimo di fondo e a considerare sempre la musica, al pari della filosofia stessa, come il prodotto di una temperie culturale. Addentrarsi in determinata letteratura romantica o del primo Novecento senza conoscere il pensiero in voga in quel periodo è riduttivo e produce interpretazioni generiche, non caratteristiche, vale a dire che non entrano nello specifico. Se si conosce il contesto culturale in cui è nata una certa opera forse è possibile anche capire meglio il senso di questa opera. Aristotele diceva scire per causas, cioè conoscere attraverso le cause: puoi conoscere qualcosa quando ne conosci principalmente la causa. Poiché ci pone costantemente interrogativi, la filosofia aiuta, anche a livello metodologico, la ricerca e la produzione del senso di ciò che interpretiamo.
È un musicista che si dedica principalmente al repertorio classico e romantico: nel 2017, quali sono le sfide e le responsabilità di occuparsi di un repertorio che ha fatto la storia della nostra tradizione musicale? Può parlarci del suo rapporto con la musica contemporanea?
Al Concorso Busoni del 2003 ho vinto il premio speciale per l’esecuzione dell’opera contemporanea. Alcuni autori italiani mi hanno dedicato loro brani e alcuni festival di musica contemporanea, come quello della Biennale di Venezia, mi hanno invitato. Se proprio dovessi rientrare in una classificazione, forse più che classico e romantico direi che sono romantico e moderno, nel senso che prediligo il repertorio anche moderno.
Naturalmente c’è da dire che il pianoforte è strumento romantico per eccellenza. Quindi, salvo casi eccezionali – pensiamo a Gould per dire un nome su tutti, che ha saltato quasi interamente la letteratura romantica concentrandosi su quella barocca e contemporanea – è quasi inevitabile che ci si ritrovi soprattutto in un repertorio squisitamente concepito per questo strumento negli anni in cui, per di più, esso viveva il suo tempo più glorioso. Con l’eccezione dei pianisti che si dedicano tantissimo al classicismo viennese, al barocco oppure al contemporaneo, è abbastanza normale che spadroneggi il repertorio romantico e moderno che è quello più squisitamente pianistico.
Sì, vorrei avere anche in futuro contatti con la musica contemporanea. Spesso per musica contemporanea intendiamo una certa musica concepita dagli anni ‘60 agli anni ‘80, ma non dimentichiamo che si continua a scrivere. Proprio oggi è interessante vedere come questo linguaggio si stia evolvendo e non sia più sinonimo di musica ostica o incomprensibile. È veramente molto affascinante vedere lo sviluppo della scrittura oggi: siamo in un periodo in cui, come in parte avveniva nei tempi passati, sempre di più il pubblico apprezza la figura del compositore-interprete, non solo quella dell’esecutore. Quindi sono molto interessato a questo tipo di scrittura, specialmente a compositori contemporaneissimi che non rifiutano a priori il contatto con il pubblico, privilegiando esclusivamente la ricerca nel campo musicale visto come organo in evoluzione.
Le sfide degli interpreti di oggi sono soprattutto quelli di studiare a fondo l’interpretazione dei brani col coraggio di svincolarsi anche, se è il caso, da determinati cliché, a patto che la propria interpretazione risulti originale ma non arbitraria. Si tratta insomma di riattualizzare costantemente le musiche del passato, mettendole anche in relazione al gusto o, se preferisce, alla precipua ricettività di oggi. Intendo riferirmi a come il pubblico di oggi reagisce a determinate armonie e forme che, al tempo in cui furono scritte, venivano percepite in un certo modo. Oggi, che siamo forse un po’ più assuefatti, occorre – come diceva Busoni – cercare di ricreare e riattualizzare sempre l’opera, in un certo senso aggiornandola ma, ripeto, non stravolgendola. Si tratta di agire nel campo squisito dell’interpretazione.
Le sue ultime uscite discografiche sono state con la prestigiosissima etichetta discografica Deutsche Grammophon (Fantasia del 2014 e Après une lecture de Liszt del 2015). Ha altre incisioni in cantiere?
Ho in lavorazione una incisione, questa volta con orchestra. Non vorrei svelare il programma, dico solo che sono protagonista di concerti con orchestra e non di un recital solistico.
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