Il programma che eseguirà il 5 marzo al Teatro della Pergola, con il pianista Giuseppe Andaloro, è un bellissimo percorso attraverso autori e periodi molto diversi: partirà da Dowland per passare da Šostakovič, Debussy, fino a Stravinsky e suonerà anche il suo Tema III da Bell’Antonio. Vuole raccontarci come ha composto questo programma e cosa la attrae della scrittura di questi compositori per il violoncello?
È un programma la cui sequenza dei brani deriva – in buona parte – da un approccio informale che, con Giuseppe, fin dall’inizio abbiamo sentito di voler seguire. Il brano di Dowland (che non è sempre lo stesso) lo inseriamo come una sorta di “warming up”, dato che lo lasciamo aperto all’improvvisazione in bilico tra la più o meno filologica “diminutio” e altro, seguiamo il ground tipicamente inglese, le tensioni armoniche (in Dowland anche laceranti). A me e a Giuseppe la pratica improvvisativa piace tanto, e spesso – durante le prove ma talvolta anche in concerto – ci troviamo a suonare in totale libertà, passando da un genere all’altro, creando anche dei collegamenti – come dei passaggi temporali – tra un brano e l’altro del programma. Diciamo che si è consolidata una formula, un canovaccio in cui però i contenuti possono essere di volta in volta sostituiti. Certamente la presenza del grande repertorio non può mancare, ma il contrasto (anche stridente) può dare una certa linea drammaturgica. Un racconto. La scrittura violoncellistica di Debussy è particolarissima, densa, sensuale, visionaria, sarcastica e – specialmente nella Sonata – palesemente lunare e capace di evocare altri suoni (aspetto già presente in altri suoi lavori poco eseguiti, come lo Scherzo del 1882 e l’Intermezzo). L’uso sapiente e audace del violoncello è il risultato di contatti con i grandi violoncellisti dell’epoca; trovo davvero strabiliante questo uso anti accademico dello strumento, un catalogo infinito di pizzicati, dal folk al jazz, armonici naturali e artificiali, picchettati sussurrati, ecc.
Di sarcasmo è pervasa anche la Sonata di Šostakovič: anche in quel caso il violoncello evoca tanto altro. È una scrittura forte, intensa e senza fronzoli, molto fisica e solcata.
Leggendo la sua biografia e passando in rassegna i numerosi progetti e collaborazioni, una delle caratteristiche che più saltano all’occhio è la sua versatilità e la capacità di spaziare fra mondi musicali molto distanti tra loro, mettendosi sempre in gioco. Inoltre, lei è anche insegnante: ai suoi allievi quale atteggiamento consiglia di avere nei confronti del repertorio?
Mah, in realtà penso più o meno come si fa per le diete… devono essere varie! A questo aggiungo la mia curiosità che – lo ammetto – rasenta la patologia. In effetti, mi sono mosso sempre tra repertorio, musica antica, composizione, sperimentazione con o senza elettronica, strumenti elettrici, auto costruiti, violoncelli di fieno, di materiale di risulta, aborigeni, aggiungo i 100 cellos, ho riportato alla luce un musicista settecentesco straordinario e caduto nell’oblio, Giovan Battista Costanzi; in questi giorni sono in tour con un violoncello di ghiaccio per il quale ho anche scritto un concerto. Ma alla fine torno sempre – e non vedo l’ora ogni volta! – al Ruggeri, alle corde di budello nudo, all’accordatura a 415hz, a una dimensione più intima e segreta del suono. Mi sento più protetto. Agli studenti dico quello che dico a me stesso: dieta varia e tanta curiosità.
Confrontandosi con generi molto diversi, mette continuamente in discussione le categorie e, in un certo senso, le formalità del concertismo cosiddetto “colto”. A questo proposito, pensa che anche gli spazi dedicati ai diversi generi musicali debbano essere ripensati? E, se sì, come?
È curioso affrontare ancora questi argomenti nel 2018. Personalmente la questione l’ho chiusa una ventina d’anni fa, trovandomi – ad esempio – a suonare le Suites di Bach nei centri sociali e alternandole ad altre musiche fortemente contrastanti. Il risultato era divertente: sentire metallari, dj e rapper gridare “vai, spacca!” dopo le Bourrée della terza Suite. Il concertismo colto esiste? Cosa intendiamo? Da non confondere con i routinier, vedo che i musicisti sono sempre più vogliosi di mettersi in gioco confrontandosi con più generi. Aggiungerei che lo spazio musicale più frequentato da almeno ventidue anni è il web, da dieci Youtube e i social (se ci penso bene, io, come più o meno ogni italiano, ho un Mac dal 1995…). È uno spazio virtuale con un pubblico impressionante per varietà e numero. Penso – e torno – alla dieta varia e alla più totale apertura da parte degli spazi reali, con curiosità, coraggio, voglia di osare. Sicuramente non è un investimento a fondo perduto!
Ha progetti futuri di cui vorrebbe raccontarci?
Al momento sto facendo un tour con l’ice cello, anzi il N-ice cello (Trento, Venezia, Roma e Palermo) che in realtà e anche un road movie i cui contenuti e riflessioni si innescano: la situazione dei ghiacciai, l’acqua (simbolicamente la si riporta in Sicilia) che è l’oro su cui governi e privati fanno inconfessabili affari, l’immigrazione (il mio è un viaggio da nord a sud, da bambino – a Palermo – ero convinto che il significato del viaggio fosse unicamente quello di andare da sud a nord con un bagaglio pieno sogni e basta). Altri progetti, oltre a diversi concerti tra Olanda e Germania, l’album su Costanzi volume III – i primi due (Sonate e Sinfonie per violoncello e basso continuo) li ho già registrati per l’etichetta spagnola Glossa, che ha consolidato una posizione di eccellenza nel mondo per la musica antica. Il cd III è dedicato ai Concerti per violoncello di Costanzi che, come le Sonate e le Sinfonie, non sono stati mai eseguiti se non dal suo autore. Un altro progetto, la cui preview (una versione ridotta) sarà alla Scala il 7 maggio, è un’operina da camera a cui sto lavorando assieme ad Antonio Albanese e a Michele Serra, autore del testo.
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