Intervista a Alessandro Taverna

Il prossimo 16 febbraio presenterà, per la stagione degli Amici della Musica di Firenze, un programma interamente dedicato a Johann Sebastian Bach e alle sue riletture e trascrizioni storiche di Rachmaninov, Siloti e Busoni. In chiusura, eseguirà un altro lavoro-omaggio alla scrittura di Bach, il Preludio Corale e Fugadi César Franck. Può raccontare cosa la avvicina a questi brani?

Soprattutto il senso del sacro. C’è infatti in tutti i musicisti un’esigenza ricorrente di ripercorrere questo repertorio durante la loro attività, ed è piuttosto sorprendente se si pensa che in fin dei conti si tratta, almeno dal punto di vista pianistico, di quello più lontano guardando alla scrittura e alla concezione esecutiva. Dell’età di Bach sono rimasti più o meno gli stessi praticamente tutti gli strumenti, ad eccezione del pianoforte, che per come lo conosciamo oggi sarebbe apparso solo circa 200 anni dopo. Eppure l’opera di Bach esercita un magnetismo e un fascino innegabile per tutti i pianisti: è come se nella sua scrittura fosse condensato e anticipato tutto quello che c’è stato dopo. Se guardiamo, per esempio, all’Overture francese c’è da pensare che sia un vero anticipo di Romanticismo. Sono sicuro che lo stesso fascino abbia determinato in tanti compositori successivi il costante “rifarsi” al genio di Bach: lo testimoniano le tante trascrizioni, alcune delle quali sono presenti nel programma che propongo, o la concezione architettonica di opere che in modo deliberato si ispirano al Clavicembalo ben temperato, da Chopin a Shostakovich, fino ai pianisti organisti che ovviamente hanno in Bach un riferimento integrale, da Mendelssohn, a Franck, a Reger.

Venendo all’accezione del sacro, esso risiede oltre che nella forma e nella perfezione matematica, nella capacità di dare voce al Divino, fungendo da tramite fra l’Assoluto e noi: rubando le parole di Philippe Daverio, le opere d’arte quali quelle di Bach sono degli specchi all’interno dei quali uno rivede una parte di se stesso, richiedono dunque una sorta di “rito iniziatico” che consente di rimanere catturati dal “gioco”, come in un contrappunto di cui non si ammira più la perfezione dell’esercizio tecnico ma se ne prova godimento artistico quasi venendone rapiti.

Il suo repertorio include anche numerosi lavori scritti da compositori contemporanei, come Luca Francesconi, Atsuhiko Gondai, Mario Pagotto, Christopher Theofanidis, Charles Wuorinen, e altri ancora. Secondo quali criteri sceglie nuovi brani da eseguire?

Il più delle volte non si tratta soltanto di una scelta personale: è spesso la proposta da parte di chi suggerisce un programma che mi induce la curiosità che poi mi fa avventurare nella scoperta di un linguaggio diverso. Nello stesso tempo è il rapporto di complicità e di collaborazione che si viene a creare con il compositore, e questa per me è la parte certamente più affascinante: l’ultima volta è capitato con Autodafèdi Michele Dall’Ongaro, che ho eseguito l’anno scorso all’Accademia Filarmonica Romana. In questo caso la sfida tecnica è stata l’elemento che più degli altri ha innescato in me l’interesse allo studio del pezzo, poi è subentrata una comprensione più approfondita di quello che esigeva il compositore, con la necessità, talvolta, di deviare dalle soluzioni che intendevo adottare. Nella musica contemporanea il privilegio è la possibilità di capire in maniera più approfondita cosa si nasconde dietro il segno, quali siano i pensieri e le intenzioni che hanno indotto il compositore a una certa scrittura, quali gli accorgimenti esecutivi ed espressivi che occorre adottare e quale, infine, il compromesso tra la tecnica e l’idea.

Oltre all’attività concertistica, si dedica all’insegnamento presso il Conservatorio e la Fondazione Santa Cecilia di Portogruaro. Quali sono i consigli più importanti che cerca di trasmettere ai suoi allievi?

Il mio approccio all’insegnamento è di impronta “sperimentale”: dipende, cioè, da una parte da quello che pratico in fase di studio e nelle esecuzioni e poi certamente da quello che ascolto negli altri e da tutti i consigli di cui nel corso degli anni ho fatto tesoro dai miei maestri: questo, in sintesi, è ciò che cerco di proporre loro, in un modo sempre il più possibile dialettico. La comprensione della ragione da cui discende un certo tipo di diteggiatura e del perché è potenzialmente migliore rispetto a un’altra, la valutazione della fisica dello strumento e dell’approccio allo stesso, e tante altre variabili, derivano forse anche dalla mia anima “scientifica”, che in passato mi aveva fatto studiare ingegneria meccanica all’università. In una recente intervista, un po’ scherzando ma nemmeno troppo, ho detto che preparando le Variazioni su Paganini di Brahms mi ispiravo alla Formula 1 di cui sono grande tifoso, soprattutto quando mettono in atto delle soluzioni aerodinamiche che però a volte si rivelano inefficaci e pertanto occorre tornare indietro. Con i ragazzi (e anche con me stesso) il lavoro è simile e, comunque, è sempre “corale”, nel senso che il flusso delle informazioni non va soltanto in un senso unico, ma anche, necessariamente, da loro verso di me: questo reciproco arricchimento è il guadagno più grande che uno possa scoprire nell’insegnamento.

Ha progetti futuri di cui vorrebbe anticipare qualcosa?

Tra i prossimi eventi ci sono i debutti con Fabio Luisi al Lincoln Centre di New York a marzo e alla Koncerthuset di Copenhagen a maggio. Poi, sempre a marzo, sarò a Dublino con la RTE National Symphony Orchestra: mi farà compagnia il loro “eroe nazionale” John Field.

Per informazioni sul concerto di Alessandro Taverna del 16 febbraio, cliccare qui.