Il 7 e 8 aprile 2018, assieme al violoncellista Nicolas Altstaedt, eseguirà due programmi dove le Sonate per violoncello e pianoforte di Ludwig van Beethoven occupano un ruolo centrale. Essendo state scritte in periodi diversi e in un arco di oltre vent’anni, può raccontarci come cambia nel tempo la scrittura di Beethoven per questo organico? Ci racconta anche il resto del programma?
Le Sonate per violoncello e pianoforte di Beethoven raccolgono un arco di vita, rappresentano tre momenti precisi della vita di Beethoven. La prima è del 1796, appartiene alle opere cosiddette giovanili. In verità, la prima e la seconda Sonata, rispetto anche alle Sonate per pianoforte che ha scritto più o meno nello stesso periodo, sono molto più audaci. Entrambe hanno una grande introduzione lenta e, nello stesso tempo, sono forse le prime opere per violoncello e pianoforte – o “per pianoforte e violoncello”, come si diceva allora – che assegnano anche allo strumento ad arco una funzione non più da accompagnatore. I due strumenti diventano quasi paritari, anzi sono già paritari. La parte creativamente incredibile è il primo tempo: l’introduzione della seconda Sonata in sol minore è di una drammaticità assolutamente rivoluzionaria, sia nella parte lenta, sia nella parte accentata. Nel secondo tempo della seconda Sonata c’è un altro aspetto di Beethoven, il suo umorismo piuttosto selvatico che qui è già sviluppato in pieno. Ha un senso dell’umorismo musicale.
Invece la terza Sonata, del 1808, è stata scritta in contemporanea con la Quinta Sinfonia, quindi in un momento di grande serenità produttiva di Beethoven. Di questa si può dire che è la prima Sonata in cui il violoncello ha un ruolo ancora più importante, rispetto alle Sonate precedenti. Ed è un’opera di grande respiro: è qui che si può parlare di un Beethoven olimpico, classico.
Poi facciamo un altro salto e siamo nel 1815, all’inizio di quello che viene definito il tardo periodo di Beethoven. Qui si stanno sviluppando grosse novità nel suo modo di scrivere, per esempio è sempre più difficile prevedere solo una battuta dopo quella che si è appena suonato perché c’è una tale libertà nella costruzione e, nello stesso tempo, un grosso lavoro polifonico. Chiaramente Beethoven si è occupato moltissimo della musica di Bach e forse della musica barocca in generale. Infatti, la Quinta Sonata ha una fuga finale: in questo periodo cominciano i suoi grandi lavori sulle fughe, ci saranno poi le sue fughe dell’op. 101, op. 106 o le fughe dei quartetti.
Quindi sono tre periodi. E noi abbiamo deciso, dato che in questo caso suoniamo in due serate, di inserire tre altre sonate. Nella prima serata eseguiremo la prima Sonata di Fauré, del tardo periodo di Fauré. Come Beethoven era sordo, lo era anche lui in quel periodo (come il tardo Beethoven). Abbiamo però a che fare con un’estetica di oltre cento anni dopo, molto diversa perché la musica di Fauré – o del tardo Fauré – è quasi minimalista o pre-minimalista. Lavora su un tappeto di armonie in cui cambia tutto ma cambia poco, nel senso che c’è una certa serenità e una certa eguaglianza del ritmo: ogni tempo ha il suo andamento, che non viene quasi mai interrotto. Cambiano all’infinito le armonie, ed è come vedere un tappeto persiano, che è tutto uguale ma nello stesso tempo cambia tantissimo. Questo è lo stile del tardo Fauré.
Invece nella seconda serata eseguiremo la Sonata di Benjamin Britten, anche questa scritta nel periodo della maturità. È un’opera estremamente accattivante. Io la vedo un po’ spettrale, penso all’idea degli spettri in Inghilterra. C’è un che di echi del passato, che vengono elaborati in modo spettrale, sia in maniera estroversa – come alla fine – sia introversa.
La sua attività concertistica si divide tra quella di solista, musicista da camera e direttore d’orchestra: in quale di questi ruoli si riconosce maggiormente?
Attualmente li vedo necessari per me, io mi sento pienamente immerso in questi tre ruoli. Chiaramente la direzione è venuta dopo rispetto agli altri due… però lavoro con grande passione anche in questo campo. La cosa più importante per me nella mia vita è il passaggio dall’uno all’altro. Fin da bambino sono sempre percepito come musicista che ha imparato il pianoforte, non come pianista. Seguo quindi l’idea della vita che mi sono fatto già da giovanissimo. Per me è anche molto importante cambiare punto di vista: da una parte il lavoro solitario, da solista, specialmente quando si suona senza orchestra. Un recital … è una bellissima osservazione di se stessi, del proprio rapporto intimo con la musica. Nella musica da camera c’è l’incontro, e di solito sono molto amico dei musicisti con cui suono… C’è sì il confronto con qualcun altro ma si scoprono maggiori dettagli e differenze che portano a risultati importanti e ogni volta è un incontro molto fruttuoso. Questo per quanto riguarda la musica da camera.
Alla direzione sono arrivato per via della mia insoddisfazione di suonare e basta, e per ripristinare la realtà storica. Ai tempi di Mozart e di Beethoven non esisteva il direttore come lo conosciamo oggi. Esisteva un modo cameristico di suonare con l’orchestra. Da qui è venuta la mia passione di dirigere il repertorio sinfonico. Non da ultimo, c’è anche un lavoro che si può definire “didattico”, in quanto sono direttore principale dell’Orchestra del Teatro Olimpico di Vicenza, un’orchestra giovanile… Facciamo un lavoro molto ben strutturato durante le prove… un lavoro collettivo. Mi piace molto questo lato pedagogico della mia attività.
Kantoratelier è uno spazio nato nel 2013 all’interno della sua abitazione fiorentina che ha deciso di dedicare, assieme a un gruppo di professionisti e familiari, a performance, masterclass, incontri, laboratori. Vuole parlarci di questa iniziativa?
Mia moglie Cristina ed io ci siamo per 20 anni interrogati su ciò che ritenevamo necessario e arricchente nella formazione di un musicista o di un artista come di qualsiasi persona di pensiero. Dopo aver realizzato progetti interdisciplinari presso varie istituzioni, abbiamo creato, nella nostra abitazione fiorentina, un vero e proprio spazio artistico, dove far germogliare idee e far incontrare diversi linguaggi. Dopo due anni di attività, ci siamo presi una pausa per riflettere su cosa avremmo voluto che lo spazio diventasse e potesse offrire. Ora stiamo lavorando a progetti di formazione di un artista e/o musicista e a breve concluderemo la prima fase di concepimento di una proposta composita, coinvolgendo le figure che ci sono più care e le discipline che riteniamo essenziali per la crescita umana e artistica di chi ha scelto di fare della musica e dell’arte il proprio linguaggio esistenziale. I laboratori saranno in gran parte aperti a uditori. Crediamo nella formula di un Kantoratelier aperto a tutti.
Per informazioni sui concerti del 7 e 8 aprile, cliccare qui.