Il programma è nato su suggestione del maestro Andrea Lucchesini e contiene autori che sono punti di riferimento per il mio lavoro, qualcosa di mio e una rielaborazione di pagine di musica antica.
Ho scelto due classici che sono stelle polari, Igor Stravinskij e Steve Reich, un europeo e un americano. La musica americana per me è sempre stata molto importante. Anche se, come compositore, non ho niente a che fare con il minimalismo, il pensiero di Reich è stato fondamentale e lo è tuttora come esempio di coerenza stilistica e di come uscire dalle regole inventandone altre. Stravinskij ha attraversato tutto il secolo, per me è il più grande maestro del Novecento.
Questi sono i due autori che ho scelto ma avrei potuto dirne moltissimi altri, altrettanto importanti. Sono un ascoltatore super-onnivoro di qualsiasi cosa e tutto quello che ascolto va a finire in quello che faccio. Certamente il jazz è la musica più importante per me, anche più della musica classica. Non sono un jazzista – a differenza del nostro vibrafonista, Andrea Dulbecco, che è un grande solista jazz, o del nostro pianista, Andrea Rebaudengo – ma lo apprezzo, l’ho studiato, ho scritto libri sul jazz… appartiene al DNA della mia scrittura. Non cerco di imitarlo ma il mio approccio alla musica è più vicino al jazz che a quello dell’accademia.
Ho scelto i pezzi anche in base all’organico definito. Di Stravinskij abbiamo la bellissima Suite de L’Histoire du Soldat nella versione per tre strumenti, clarinetto, violino e pianoforte, anziché i sette dell’originale. Questa versione è un po’ più breve ma è uno dei capolavori del compositore. Di Steve Reich ho scelto uno dei primissimi lavori, che risale agli anni Settanta, Music for Pieces of Wood, dove suoniamo tutti. Il resto del concerto io lo dirigo, qui invece suono, anche perché sono un ex percussionista e l’occasione è sempre buona per suonare le percussioni.
Ognuno di noi suona dei pezzi di legno, come dice il titolo, che si incastrano fra loro: sono pezzi apparentemente semplici ma in realtà molto complicati e anche molto divertenti.
Per quanto riguarda la musica antica, mi piacciono le cose un po’ bizzarre, stravaganti, matte, fuori dal comune. Quindi ho scelto Giovanni Picchi, clavicembalista del Seicento, veneziano trasferito a Vienna, che fa parte di quella “stravaganza”, come la chiamerebbe Vivaldi. Picchi era un grandissimo improvvisatore, una specie di Keith Jarrett del clavicembalo. Le sue partiture sembrano trascrizioni delle sue improvvisazioni. Era di un’arditezza, di una fantasia incredibile con dissonanze stranissime. Era molto moderno, infatti era considerato mezzo matto, un eccentrico.
Nel brano ci sono danze con contraddanze bellissime cromaticamente e armonicamente, ma un po’ strane che vanno sempre in direzioni che non ci aspetterebbero. Le dissonanze sono così ardite tanto che il libro in cui sono pubblicate sottolinea che non si tratta di errori ma sono espressamente volute.
È una musica allegra, molto divertente e spumeggiante, sempre imprevedibile. Mi piace questa sua assoluta libertà, che ricorda quella di Stravinskij. E anche quella che si è conquistata Reich, da compositore nato in piena avanguardia, che ha studiato con Berio e che in teoria avrebbe dovuto seguire una carriera di quel tipo ma, insieme a colleghi quali Philip Glass, La Monte Young o Terry Riley, si è dedicato a creare qualcosa di originale, trovando un proprio stile. Non posso forse dire lo stesso dei miei pezzi però è anche la mia aspirazione, quella di essere un compositore più libero, senza catene.
Hot Shot Willie è lo pseudonimo del bluesman americano, Blind Willie Johnson, grandissimo chitarrista che veniva pagato un tanto al disco sulla base di un contratto per un certo numero di dischi all’anno e che per incidere altri dischi utilizzò vari pseudonimi. Molto più di quello elettrico di Eric Clapton, a me piace il blues degli anni Dieci e Venti, quello rurale, con grandi musicisti americani come Muddy Waters, Sonny Boy Williamson ecc.
Hot Shot Willie è un concerto per violino che ho scritto per il nostro straordinario solista, Piercarlo Sacco, primo violino dell’ensemble (dove sono tutti grandi solisti). Volevo fare un concerto per violino che non avesse niente a che fare con qualcosa di romantico o melodico, così mi sono ispirato a diversi dischi di violinisti neri afroamericani degli anni Venti, che suonano in una maniera completamente diversa dalla nostra. Non hanno nessuna impostazione classica, suonano come se fossero musicisti folk, con poco vibrato, con un suono molto percussivo, scuro. Non volevo imitarli ma volevo rifarmi a quel mondo. Non volevo un violino europeo-ottocentesco, ma un violino naïf, un violino folk. Ho scritto per Piercarlo questo concerto che è di una difficoltà assoluta perché comincia a suonare a battuta 1 e smette quando finisce il pezzo, suona non-stop. C’è un dialogo continuo fra il solista e l’ensemble fino a che si arriva a un parossismo ritmico finale. Il violinista usa tecniche di glissato, suona con pochissimo vibrato, ha una parte molto ritmica, quasi da percussionista. Questo brano è un omaggio ideale a questi grandi musicisti americani degli anni Venti, non è proprio un concerto per violino tradizionale.
Red Harvest è un brano più recente, uno dei pochi brani esistenti per violoncello e vibrafono, se non l’unico. È un organico molto interessate perché il violoncello ha un’estensione enorme mentre il vibrafono ha un’estensione più piccola ma una maggiore velocità. Anche in questo brano il jazz è molto presente come idea: sembra quasi di vedere dei musicisti che improvvisano, anche se in realtà quello che eseguono è tutto scritto.
Ho scritto questo brano per i musicisti di Sentieri selvaggi, anche se la commissione iniziale è venuta da Enrico Dindo e Simone Rubino, che lo hanno fatto in maniera completamente diversa. Anche se suonavano le stesse note che suonano i Sentieri selvaggi, il risultato era totalmente diverso. Questo non è un brano jazz, ma una specie di sonata in tre parti collegate fra di loro – veloce, lento, veloce – quindi ha una struttura classica che però non suona molto classica.
In realtà, dato che Andrea Dulbecco, il percussionista del nostro ensemble, è uno straordinario improvvisatore, avrei voluto lasciargli degli spazi – ho scritto altri pezzi per lui dove si alternano le parti scritte ad altre dove lui può improvvisare. Ma qui no, ci sono incastri molto precisi. Il risultato è una musica, da un lato, il più possibile libera, non accademica, e dall’altro controllata formalmente come armonia. Non è proprio un jazz da camera, ma ci siamo quasi.
Hot Shot Willie è stato composto per i Concerti di Monfalcone, mentre Red Harvest è una commissione della Filarmonica Romana. Il titolo Red Harvest riprende quello di un libro di Dashiell Hammett, in italiano Raccolto rosso. In questo caso il riferimento è alla difficoltà di esecuzione del brano per cui Simone Rubino ed Enrico Dindo, per raccogliere i frutti del loro lavoro, avrebbero dovuto sudare sangue.
L’ensemble Sentieri selvaggi è nato nel 1997. Abbiamo fatto centinaia o migliaia concerti. Siamo felicissimi di suonare per gli Amici della Musica ma spesso suoniamo anche in posti non ufficiali. Abbiamo tenuto concerti in centri commerciali, in centri sociali, per strada. Abbiamo fatto un concerto di John Cage a Milano in centro durante gli acquisti natalizi. Ci piace suonare anche in posti dove normalmente la musica non si trova, non solo la classica e tanto meno la contemporanea. Siamo comunque molto attenti a tenere programmi di qualità ma l’approccio è totalmente informale.
Siamo nati come programma radiofonico – la trasmissione Sentieri selvaggi che ho fondato con Filippo Del Corno e Angelo Miotto dedicata alla musica contemporanea. Venendo dalla radio, nei nostri concerti abbiamo l’abitudine di introdurre ogni brano con qualche parola e abbiamo visto che questo non solo rompe la famosa “quarta parete” e rende tutto molto più informale, come se suonassimo davanti a un gruppo di amici, ma una breve e chiara spiegazione fa superare le difficoltà di ascolto.
Carlo Boccadoro