Il ritratto di Claudio Ambrosini

“Ambrosini, Maderna, Nono” – il programma concepito da Francesco Gesualdi – ha per protagonista la mia città: Venezia, sia quella del Novecento che quella del Rinascimento e del Barocco, secoli caratterizzati da un’incessante sperimentazione sonora.
Bruno Maderna e Luigi Nono, tra i protagonisti assoluti della musica internazionale del secondo dopoguerra, sono anche presenze fondanti di quella che oggi viene chiamata “Seconda Scuola veneziana”. Come per la musica tedesca si usa riunire i padri fondatori della classicità – Haydn, Mozart, Beethoven– in una “prima scuola” cui fare seguire – con Schoenberg e i suoi allievi Berg e Webern – una “Seconda Scuola di Vienna”, così per il capoluogo lagunare la musicologia individua innanzi tutto una prima, grande Scuola: quella che dal Rinascimento – con i Gabrieli, Monteverdi, Zarlino e i tanti altri compositori attivi in città – ha prodotto non solo dei capolavori, ma ha anche gettato le basi per una serie di pratiche sviluppatesi poi nei secoli successivi.
Arrivando infatti al Novecento, Gian Francesco Malipiero – e i suoi due allievi, Bruno Maderna e Luigi Nono – hanno dato vita a quella che viene chiamata la “Seconda Scuola veneziana”, vitale anche oggi. Le caratteristiche di entrambe le “scuole”? Le ricerche sul timbro, sull’acustica, sulla spazializzazione del suono, sulla polifonia, sulla nuova liuteria, sulla teatralità… a partire da quel vero e proprio laboratorio sonoro che era la Basilica di San Marco, dove gruppi vocali e strumentali distribuiti nello spazio si alternavano dando vita a un prototipo di quella che oggi chiamiamo stereofonia.
Un’altra caratteristica è poi che tra le due scuole, benché separate da quattro secoli, non c’è distanza, e tanto meno, distacco. Anzi la prima rivive attraverso la seconda: all’inizio del Novecento Gian Francesco Malipiero ha avviato la ricerca sugli originali conservati alla Biblioteca Marciana, ha realizzato la prima edizione completa dell’opera omnia di Claudio Monteverdi e ha anche avviato la pubblicazione del corpus di musica strumentale di Antonio Vivaldi. Bruno Maderna e Luigi Nono hanno poi continuato la ricerca in maniera innovativa, ma proseguendo la linea di interesse segnata dai “padri rinascimentali”: sulla differenziazione timbrica, sul suono nello spazio, sullo sviluppo degli strumenti e delle nuove tecniche esecutive, ampliate dall’uso della tecnologia.

Per quanto riguarda il mio lavoro, ho pensato di restituire l’omaggio incentrando la scelta dei miei brani su Firenze, luogo di eccellenza per la letteratura e la poesia. Quindi ho scelto lavori che abbiano tutti qualche relazione con i versi nati in questa regione, ieri o oggi.
E a mo’ di flashback ho inserito nel programma anche la mia trascrizione di un brano rinascimentale: la Canzon Prima di Giovanni Gabrieli, magnifico esempio della scrittura della prima ‘scuola’. Il resto del programma presenta poi lavori scritti in un arco di tempo che va dal 1981 a oggi.

A guisa di un arcier presto soriano, è il titolo di un lavoro per flauto che si rifà a un sonetto di Guido Cavalcanti che ha per protagonista il dio Eros, l’Amorino che con le sue frecce è sempre pronto a colpire le anime giovani e farle innamorare. Il verso del titolo, che letteralmente significa “Come un arciere veloce della Siria”, mi colpì quando lo lessi al liceo. Come mi è poi successo anche in altri casi, questa poesia mi è rimasta dentro come in stand-by, in attesa di ispirazione. Che è arrivata nel 1981: come faccio quasi sempre si tratta di un lavoro di avanzatissima ricerca strumentale, quindi tendenzialmente astratto, ma costellato di “immagini” che, senza seguire pedissequamente il decorso del sonetto, mirano a cogliere alcuni stati mentali ed emotivi, come il senso di attesa, di sorpresa che la situazione descritta sottende. A partire dal suono di apertura: forse quello di una freccia scoccata da un dio che, come dice Cavalcanti: è “acconcio sol per uccidere altrui”?

Ancora del 1981 è “Oh, mia Euridice”… A Fragment, che ho immaginato come il frammento superstite di una mia opera su Orfeo andata perduta, un po’ come è avvenuto per l’opera Arianna di Monteverdi, di cui conosciamo solo il Lamento.
Avevo quindi composto soltanto questo frammento, ma poi è successo che nel 1984 io abbia ricevuto l’invito a scrivere un’opera intera. Ho quindi deciso di comporre tutte le altre scene e ho intitolato l’opera Orfeo, l’ennesimo perché sono tanti i musicisti che hanno scritto un Orfeo, nei secoli!
Infine, nel 1991, ho fatto la versione del brano iniziale per voce, clarinetto, violoncello e pianoforte, che verrà presentata qui.

Tremita l’aria, una composizione del 2014, ci porta invece alla letteratura contemporanea. È la messa in musica di una breve poesia di Giuliano Scabia, poeta veneto-toscano mancato pochi anni fa a Firenze. Un autore importante, che ha anche collaborato con Luigi Nono per l’opera La fabbrica illuminata. Io ho avuto la fortuna di essere stato suo amico e, visto che aveva casa anche a Venezia, di averlo frequentato per decenni.
Quella che presento è la prima assoluta di una versione nuova per voce e piccolo ensemble.
Questo il testo:

Tremita l’aria quando sorge amore
e un vuoto di forma – dentro cui va il vento.
Vento noi siamo – vento con parole –
vento che nasce quando le ali d’oro,
molto grandiose, amore muove.


Il concerto si conclude con De vulgari eloquentia, un brano per quintetto del 1984 che io considero il mio ‘manifesto’.
Come si sa Dante scrisse il suo trattato per affermare che il volgare – l’italiano – era ormai una lingua matura, in grado di sostituire il latino; così anche io intendevo riunire in questo pezzo tutti gli esiti della mia ricerca sul suono, sugli strumenti, sul fraseggio e altro ancora, intendendola come il mio proprio “volgare”: un linguaggio che mi pareva avere raggiunto un livello di duttilità e caratterizzazione tale da risultare autonomo rispetto alla koinè, al linguaggio della Musica Contemporanea di quegli anni.

Musica e poesia, ricerca strumentale e parola dunque come piccolo omaggio a Firenze, città che adoro fin da quando venni a visitarla per la prima volta – e da solo – a quindici anni.

Claudio Ambrosini