Duo Canino-Ballista: sessant’anni di amicizia

di Piero Rattalino

Per molto, anzi, per moltissimo tempo il pianoforte fu il veicolo privilegiato per la diffusione capillare della musica: le sinfonie, le ouverture, i divertimenti, le serenate, le cassazioni, i trii, i quartetti, i melodrammi – e chi più ne ha lo metta, come diceva un direttore di conservatorio noto per la aristocratica forbitezza del suo eloquio – entravano nelle dita del pianista e le facevano correre e saltellare sui tasti per dare all’ascoltatore una loro immagine non infedele. Se le dieci dita erano quelle di Franz Liszt il pianoforte, come attestano autorevolmente i contemporanei, poteva sostenere il confronto con l’orchestra. Se erano quelle di un comune tapeur l’immagine diventava piuttosto sfuocata. Ma c’era un potente refugium peccatorum: il quattro mani.

Un pianoforte a tavolo o un pianoforte verticale accostati al muro occupano poco spazio e possono essere collocati agevolmente anche negli angusti appartamenti della piccola borghesia, che aspira ad acculturarsi. Due persone volonterose leggono, prima compitando, poi più agevolmente, la sinfonia di Beethoven che non hanno mai avuto la ventura di ascoltare dall’orchestra. Quando si sentono pronti radunano attorno a sé, eccitati e festanti, i familiari e gli amici. Si ascolta religiosamente la sinfonia, la si commenta, ci si commuove, ci si congratula con gli esecutori. Poi si servono i biscotti e il rosolio preparati dalla padrona di casa, si chiede ai pianisti se non sono troppo spossati per esibirsi una seconda volta, si riascolta la sinfonia e ci si accomiata canterellando i temi principali che si sono fissati nella mente.

Così nella seconda metà del Settecento e per l’intero Ottocento. Nel Novecento arrivano come guastatori il pianoforte riproduttore che suona da solo, e la radio e il disco, e l’uso delle fervorose esecuzioni casalinghe prima decade e poi sparisce. Ma io sono abbastanza agé da averlo ancora conosciuto, quell’uso antico. Mentre studiavo privatamente la composizione percorsi in questo modo, suonandole a quattro mani con il mio maestro che me le spiegava e me le commentava, le sinfonie di Brahms e gli ultimi quartetti di Beethoven, che studiai poi in partitura riuscendo a immaginare l’effetto di una vera esecuzione. Il mio maestro, Luigi Perrachio, aveva completato i suoi studi di pianoforte a Vienna con Ignaz Brüll, che le sinfonie di Brahms le aveva suonate a quattro mani addirittura con Brahms, e pensava che il quattro mani fosse il veicolo ideale per fissare in mente la musica sinfonica e da camera. Credo che avesse ragione. Per lo meno, con me quel metodo funzionò alla grande e la mia gratitudine per Luigi Perrachio è rimasta intatta.

Talvolta la trascrizione per pianoforte a quattro mani delle opere orchestrali era dovuta agli stessi autori, talvolta a specialisti che conoscevano tutti i trucchi del mestiere e che procedevano alla velocità delle spie, con piena soddisfazione degli autori. Ma il quattro mani utilitaristico, artigianato di gran classe, non escludeva il quattro mani artistico. Tutti i grandi compositori di musica per pianoforte solo a partire da Mozart – ed escluso soltanto Chopin, che pure suonò musiche di altri in coppia con Moscheles, con Hiller, con Liszt – composero anche, qual più, qual meno, per pianoforte a quattro mani, mettendo insieme un corpus considerevole di opere di gran pregio che da un certo momento in poi non ebbe più la sua naturale collocazione nelle esecuzioni private ma che non poteva restare confinato ai margini della vita musicale pubblica. Il concertismo conobbe così il fenomeno dei duo pianistici professionali stabili che svolgevano attività concertistica sia a quattro mani che con due pianoforti. E dopo qualche tempo si cominciò a pensare che anche le versioni a quattro mani della musica sinfonica e della musica da camera avevano dei buoni numeri per essere rimesse all’onor del mondo.

Il duo formato da Bruno Canino e da Antonio Ballista fu tra i primi a proporre trascrizioni, sia a quattro mani che per due pianoforti. E io ricordo la sorpresa – con un po’ di scandalo – che ci fu quando i due eseguirono la Sinfonia n. 9 di Beethoven trascritta per due pianoforti da Liszt e la Sagra della primavera trascritta a quattro mani da Stravinsky. Vero è che Stravinsky si era assunto la responsabilità della trascrizione e che l’aveva addirittura registrata su un rullo di pianoforte riproduttore. Registrata tutta da solo, e quindi nominalmente a quattro mani ma realmente a due mani moltiplicate per due. Però Stravinsky, che badava a ricostruirsi un patrimonio dopo averlo perduto con la Rivoluzione d’Ottobre, era sospetto di opportunismo e la sua autorevolezza veniva messa in forse. Quanto a Liszt, le sue fortune critiche avevano raggiunto il punto più basso e solo il suo “tardo stile”,avanguardia delle avanguardie, veniva preso sul serio.

Erano i tempi in cui la musica era timbro prima che altezza o intensità. E allora, come rinunciare al solo di fagotto con cui si apre la Sagra della primavera? Come rinunciare al coro nella Nona Sinfonia? Vade retro. Se mi è permesso di fare un altro po’ di autobiografia, quando uscì il disco del duo Canino-Ballista con la Sagra a quattro mani mi venne chiesto dall’editore di scrivere le note di presentazione. Pensavo di cavarmela parlando del pezzo e non della trascrizione, e questo escamotage si rafforzò quando sentii l’assolo di fagotto rivisitato pianisticamente. Ma a mano a mano che andavo avanti nell’ascolto mi accorsi che la trascrizione reggeva bene e che mi offriva molti spunti di conoscenza. Mancava il gioco dei timbri, ovviamente, ma emergeva potentemente il ritmo, il ritmo nudo, non rivestito dal colore. E così andò a finire che venni preso dall’entusiasmo e che tutti i miei dubbi si liquefecero.

Curiosamente, ma non troppo, la definitiva assoluzione delle trascrizioni venne dall’avanguardia. Pierre Boulez, organizzando una stagione sinfonica dell’Orchestre de Paris, inserì un sacco di trascrizioni nella programmazione e scrisse un articolo che… cambiava le carte in tavola. Tutto d’un botto il Canino-Ballista che stava più avanti degli altri si trovò sommerso dalla marea montante. E anche la discografia fece la sua parte: quattro mani e due pianoforti erano stati legittimati a riprendere qualsiasi trascrizione, purché – la foglia di fico – fosse d’epoca.

Riprendendo le vetuste trascrizioni il duo Canino-Ballista non faceva un’operazione intellettualistica – altrimenti non avrebbe avuto successo – né un’operazione commerciale – altrimenti non avrebbe ricevuto il placet della critica. Faceva un’operazione di evoluzione della cultura in relazione con una evoluzione della creatività. Nel momento in cui i compositori sperimentavano le possibilità di musiche non strettamente legate a un solo mezzo sonoro strumentale, la trascrizione ridiventava possibile o, almeno, ridiventava possibile l’esplorazione del repertorio storico della trascrizione. Quindi, eseguire la Nona di Beethoven-Liszt o la Sagra a quattro mani significava, paradossalmente, adeguare la deontologia dell’interprete all’avanguardia creativa. E questo poteva farlo solo un duo che, inizialmente, sull’avanguardia aveva puntato tutte le sue carte. Il duo Canino-Ballista arrivò un po’ prima del duo Kontarsky, anch’esso molto legato alle avanguardiee che comunque praticò poi poco le trascrizioni. Oggi non c’è duo che non abbia una larga fetta di trascrizioni nel suo repertorio e non c’è pubblico che non si dichiari soddisfatto dopo averle sentite. A questa evoluzione della cultura il duo Canino-Ballista ha dato un notevolissimo, un fondamentale contributo.

Con ciò non voglio dire che sia questa la sola ragione per cui, a sessant’anni dalla sua costituzione, possiamo parlare del duo Canino-Ballista come di un complesso di rilevanza storica. Ma una delle ragioni che hanno fatto del Duo un protagonista dell’interpretazione musicale negli anni a cavallo fra Novecento e Duemila è questa. La seconda ragione, come si evince del resto da ciò ho testé detto, è la disponibilità verso la musica contemporanea d’avanguardia. Il numero delle prime esecuzioni assolute e delle prime esecuzioni italiane che ebbero come protagonista il duo Canino-Ballista è molto elevato. Berio, Donatoni, Stockhausen, Boulez, Ligeti, Castaldi, Bussotti…. Si può dire che non c’è pagina importante della seconda metà del Novecento che non lo abbia visti all’opera, il duo Canino-Ballista. Superfluo fare degli elenchi. Ma vorrei ricordare, perché è a suo modo istruttiva, la prima esecuzione che ascoltai della Passion selon Sade di Bussotti, con i Tableaux vivants avant la Passionselon Sade per due pianoforti, eseguiti anche innumerevoli volte separatamente, in concerto.

La esecuzione della Passiona cui faccio riferimento ebbe luogo all’Angelicum di Milano, in verità non con la specificazione selon Sade ma selon ****. L’Angelicum era un’istituzione dei Frati Minori e Sade non era precisamente un tipo che i frati avessero in odore di santità. Riccardo Allorto, direttore artistico dell’istituzione, propose il pezzo. Il padre Zucca, che gestiva da padrone l’Angelicum, era un personaggio di grande intelligenza e di ancor maggiore furbizia. Furbescamente autorizzò l’esecuzione che avrebbe fstto clamore, a patto che i quattro asterischi sostituissero il nome di Sade. Il pubblico ignaro rimase sconcertato quando, durante i Tableaux vivants, vide Canino e Ballista che trattavano i due pianoforti come due cavalli riottosi, picchiandoli, frustandoli, frugandogli nella pancia. Poi, quando Cathy Berberian andò a strusciaglisi contro, ai due pianoforti-cavalli, evocando per i dotti le leggende degli amori equini della duchessa di Parma Maria Luigia,, cominciarono le urla di disapprovazione, anzi, di furore. La Berberian, Canino e Ballista proseguirono imperterriti e serissimi, almeno apparentemente dediti soltanto alla musica, e l’esecuzione andò comunque in porto. Che gran bei tempi, erano quelli! Due lustri or sono, celebrando i cinquant’anni di attività insieme, Canino e Ballista ripresero i Tableaux vivants. Il pubblico non protestava più: rideva.

La terza motivazione di eccellenza del duo Canino-Ballista riguarda il loro approccio al repertorio tradizionale. Il Duo ha percorso con rispetto e amore il repertorio a quattro mani e per due pianoforti da Bach a Bartok, riuscendo a non ghettizzare né l’avanguardia né la storia. E questo è un raro merito: non mettere il presente in guerra col passato, o viceversa, significa concepire la musica come un continum storico in cui i valori umanistici prevalgono su tutto. E questo è fare della musica una ragione di vita.

 

Nell’Inghilterra, che aveva precocemente conosciuto la rivoluzione industriale e che aveva precocemente tagliato la testa al suo re, era diventata possibile per i musicisti, nella seconda metà del Settecento, la libera professione. Sul continente, e in particolare in Austria, no. Mozart, per evadere da Salisburgo, fece a Vienna il libero professionista ma non appena gli capitò l’occasione prese al volo uno stipendio, sia pure striminzito. Beethoven, dopo essere stato un salariato del principe-vescovo di Bonn, visse a Vienna come libero professionista, ma tanto brigò che ottenne da tre aristocratici una pensione con il solo obbligo di risiedere nell’impero austriaco. Incedibile monumento nazionale, Beethoven, che conosceva bene il savoir vivre. Schubert è invece il primo grande compositore austriaco che restò libero professionista per tutta la vita. In realtà anche lui, come Mozart, forzatamente, perché aspirò a diventare maestro di cappella della cattedrale di Lubiana e prese parte al relativo concorso, ma riuscendo sconfitto malgrado la lettera di raccomandazione di Salieri, che in Austria era un’autorità. Nessuno stipendio assicurato, e pochissime relazioni altolocate. Schubert, al contrario di Beethoven, non godeva della protezione dell’aristocrazia mentre aveva invece molte amicizie fra i borghesi. Questo era in primis il suo pubblico, e le esigenze di questo pubblico erano molto particolari: musica come divertimento elegante e spensierato, non come pseudo speculazione filosofica. Schubert non rinunciò affatto alla speculazione filosofica, e questo fece sì che delle sue quasi mille composizioni solo un centinaio venisse accettato dagli editori e pubblicato. Per un libero professionista che campa col suo lavoro creativo, un risultato rovinoso. Schubert visse in casa dei genitori, o presso amici, o in camere d’affitto, non ebbe mai una sua dimora e navigò sempre ai confini della povertà. Ma in fondo, diciamolo pure, ne valeva la pena. Soprattutto per quello che noi ne abbiamo ricevuto.

Per catturare con la musica strumentale l’attenzione del pubblico borghese bisognava fare un qualcosa di analogo a ciò che il pubblico borghese amava incondizionatamente: il melodramma. Nasce così lo stile che verrà detto Biedermeier, lo stile che trasferisce nella musica strumentale caratteri dell’opera. ll Rondò D 608 per pianoforte a quattro mani, composto nel gennaio del 1818, comincia con un tema che melodicamente e ritmicamente ricorda una danza popolarissima, la polacca, e contiene altri due temi che alludono anch’essi al melodramma. Lo schema è quello solito: A – B – A – C – A – Coda. Il tema principale, A, viene però accorciato e variato nelle due ripetizioni, e la Coda è breve. Sono sette minuti circa di musica, di musica colloquiale e gradevole che soddisfa l’orecchio per la sua piacevolezza e che è chiaramente articolata nella sua struttura tritematica.

Schubert aveva fatto del suo meglio per andare incontro al mercato, ma non trovò un editore. Il pezzo uscì sei anni dopo la sua morte presso Antonio Diabelli, con un titolo arbitrario e suggestivo: Notre amitié est invariable, La nostra amicizia è costante. Si sono cercate varie spiegazioni per un titolo che secondo il mio parere è invece soltanto bene azzeccato e che proprio per la mancanza di spiegazione certa attrae l’attenzione e suscita curiosità. A voler fare i pignoli si potrebbe osservare che l’amicizia non è poi tanto costante se il B è in modo minore e tutt’altro che pacifico. Ma, ripeto, chi lo inventò sapeva evidentemente il fatto suo ed era, diciamo così, un precursore della psicopubblicistica che oggi conosciamo bene.

Il resto del programma ci presenta due coppie d’amici. Liszt e Wagner erano amici, sia pure un po’ a senso unico perché Wagner, più che provarla, l’amicizia la concedeva. Ed erano anche parenti perché Wagner aveva sposato una figlia di Liszt. Liszt ammirò la musica di Wagner e si batté per essa fino alla morte. Wagner ammirò la musica di Liszt fino a una certa data, poi non più. Non ammirò il Weihnachtsbaum, Albero di Natale per pianoforte solo o pianoforte a quattro mani, che Liszt compose negli anni settanta per una nipotina, figlia di primo letto della moglie di Wagner, Cosima. Proprio Cosima dice nel suo diario che il marito non volle commentare il pezzo quando lo lesse e che non nascose la sua delusione. In verità erano in pochi, allora, a non rimanere delusi dalle composizioni che Liszt andava pubblicando negli anni ottanta. Uno stile spoglio, primitivistico, e tanto più spoglio e più primitivistico in pezzi scritti per una bambina. Ho detto prima, incidentalmente, che Liszt fu visto alla metà del Novecento come l’avanguardia delle avanguardie. E nel tardo Liszt c’è in effetti un rifiuto della retorica e uno sperientalismo linguistico che preludono alle poetiche del Novecento. Gli intellettuali adorano l’Albero di Natale. Ma i concertisti, che conoscono il pubblico più grosso e che ne dipendono, lo lasciano fuori dai loro programmi, e uno solo fra i grandissimi interpreti, Horowitz, ci ha consegnato in disco uno dei dodici pezzi, il terzultimo, intitolato Ehemals, Una volta. Un pezzo struggente, indimenticabile… Ma Horowitz lo riscrisse, in parte nello stile del Liszt anni cinquanta.

La Ouverture del Tannhäuser fu trascritta per pianoforte solo da Liszt. Ho detto prima che quando una trascrizione veniva eseguita da Liszt il pianoforte poteva rivaleggiare con l’orchestra. La trascrizione lisztiana del Tannhäuser è effettivamente uno splendore, ma è talmente difficile da mettere un po’ a disagio, così per lo meno si dice, persino lo stesso Liszt. Altrettanto splendida, ma più… praticabile è la trascrizione per pianoforte a quattro mani di Hans von Bülow, sommo pianista e sommo direttore d’orchestra che si dedicò anima e corpo alla diffusione della musica di Wagner finché Wagner… gli portò via la moglie Cosima, figlia di Liszt. Questa è la vita, e se io cito la vicenda lo faccio solo perché, archiviato ormai lo scandalo, il mio lettore ne ha probabilmente una vaga rimembranza. L’Ouverture è strutturata nella forma tipica di ampia introduzione, corpo principale, perorazione e coda. L’introduzione, la perorazione e la coda sono basate sul canto dei pellegrini che si recano a Roma, il corpo principale è basato sul baccanale nel Monte di Venere. Cristianesimo e paganesimo, misticismo e carnalità, redenzione e peccato. E’ molto raro che termini antitetici come questi trovino un equilibrio e una sintesi pari a quelli che vengono raggiunti dal giovane Wagner, ancora legato al mondo del melodramma tradizionale e non della “musica dell’avvenire”. La Ouverture e la Marcia del Tannhäuser, i Preludi del primo e del terzo atto e la Marcia nuziale del Lohengrin furono le pagine che, eseguite in sede sinfonica, fecero parlare e discutere di Wagner quando le sue opere rimanevano ancora escluse dal circuito operistico. Una pagina del Tannhäuser e una del Lohengrin, eseguite senza successo a Torino, fecero però scrivere a un critico che il popolo aveva parlato e che in due pezzi aveva condannato un sistema. “La questione”, concluse profeticamente il critico, “è chiusa”.

Anche l’amicizia fra Brahms e Dvorak fu un po’ a senso unico perché, mentre Dvorak provava per Brahms un sentimento che non è esagerato definire come venerazione, Brahms stimava Dvorak e si faceva garante delle sue musiche presso gli editori. Nella seconda metà dell’Ottocento stavano nascendo le cosiddette “scuole nazionali” che intendevano riferirsi al canto popolare, al folclore anonimo accumulato nei rispettivi paesi nei secoli, e servirsene per composizioni da strutturare secondo i canoni della musica colta. Dvorak, che era boemo, compose due serie di Danze slave, op. 46 e op. 72, in versione per pianoforte a quattro mani e per orchestra. L’interesse per il canto popolare slavo nasce in Boemia, per lunghi anni nazione indipendente, con la sconfitta che l’Austria subisce nel 1859 nella seconda Guerra di Indipendenza dell’Italia. L’invincibile Impero Austriaco che aveva sconfitto Napoleone I viene a sua volta sconfitto dalla Francia di Napoleone III, alleato dell’Italia. La sconfitta militare mette in forse la superiorità culturale e Dvorak coglie la palla al balzo, ottenendo un successo trionfale non solo a Praga, dove avviene la prima esecuzione parziale della prima serie, ma anche a Londra, dove l’esecuzione è completa. Il primo e l’ultimo pezzo dell’op. 46 sono due Furiant, danze di corteggiamento ritmicamente molto mosse, il sesto pezzo è un Spousedskà. La prospettiva ideologica, e quindi la scelta del linguaggio, è di rendere la musica popolare boema degna di apparire nelle stagioni concertistiche internazionali, e quindi di rappresentare una nazione che solo da poco tempo aveva conquistato l’autonomia, sia pure nel quadro dell’impero austriaco.

“Ma che ci azzecca Brahms con l’Ungheria?”, potrebbe dire l’on.le Di Pietro se, ovviamente, conoscesse Brahms. Che ci azzecca infatti un borghese di Amburgo, città anseatica, con la musica degli zingari ungheresi (perché la musica detta ungherese è quella degli zingari d’Ungheria)? Non ci azzecca niente, Brahms. Ma ci azzecca il suo fiuto di libero professionista che dal mercato ricava i mezzi di vita. Tutte le brasserie sparse lungo il corso del Danubio avevano la loro brava orchestrina tzigana e non ci voleva molto, per capire che con quella musica i diritti d’autore sarebbero fioccati come la neve a Natale. Il miraggio che aveva abbagliato e Mozart e Schubert era infatti diventato realtà poco dopo la metà del secolo e i compositori si stavano attrezzando per rispondere alla richieste del mercato, anche se, come Brahms, non rinunciavano affatto a misurarsi con i grandi del passato. Non era difficile procurarsi temi tzigani. Ma Brahms, da giovane, aveva fatto dei giri di concerti con un violinista ungherese che faceva ascoltare anche la musica zingara ed era quindi… ferratissimo. Con le Danze ungheresi Brahms si fece conoscere anche presso un pubblico che non andava ai concerti. La sua poetica era in sostanza ancora quella di Haydn e di Schubert: ricerca del pittoresco, non del rinnovamento del linguaggio. Ma la piacevolezza melodica e l’alternanza di languore e di eccitazione, così tipiche della musica tzigana, fecero la fortuna delle Danze ungheresi e specialmente della quinta e della sesta, che divennero popolarissime.

Piero Rattalino