In dialogo con Arcadi Volodos

Il programma che presenterà il prossimo 23 aprile a Firenze include brani di Schumann (Papillons op. 2), Brahms (Klavierstücke op. 76) e Schubert (Sonata D 960). Sono lavori che presentano caratteristiche molto diverse e che richiedono una forte intensità interpretativa: cosa la affascina di questi pezzi?

In effetti queste opere sono scritte da compositori la cui estetica è molto varia, eterogenea. Inoltre anche i brani che ho scelto appartengono alle diverse fasi della vita di questi compositori: se i “Papillons” sono un’opera giovanile di Schumann, in Brahms i “Klavierstuecke” appartengono a un periodo più maturo anche se non tardivo, e infine la sonata di Schubert è una delle ultime opere della sua vita, scritta poco prima di morire. Questi brani richiedono quindi un grande “passaggio di stati” e di sensibilità psicologica da parte dell’interprete: la freschezza e la spontaneità dei primi brani di Schumann mutano nel corso del concerto verso un maggiore grado di serenità e trascendenza, per immergersi nella profondità dell’ultima sonata di Schubert, una musica che va “oltre la vita e la morte”.

Quando deve definire il programma di un concerto, quali sono i criteri che normalmente adotta per scegliere i brani da suonare?

Ci sono diversi criteri importanti che sono difficili da spiegare in poche parole e che dipendono dalla specificità di ogni programma. Ma potrei accennare a tre principi fondamentali: coordinamento stilistico (non posso mettere Mozart e Scriabin nella stessa parte del programma, per esempio); coordinamento delle tonalità delle opere, come si seguono e si coordinano tra loro. E infine, quella che posso definire la drammaturgia generale del programma, che sarà diversa da un programma all’altro: per esempio, non posso inserire l’ultima sonata di Schubert nella prima parte del programma, che dovrebbe essere riservata alla fine del concerto… La drammaturgia può essere rivelata dalla dinamica della profondità delle opere, come si può notare anche dal mio prossimo programma. Ma può anche essere basato sul principio dei contrasti emotivi nel caso di cicli con brani molto corti.

Lei viene spesso definito come “il poeta della tastiera”. Quanto si sente vicino a questa immagine e come definirebbe la sua poetica?

Anche se in genere non mi piacciono i cliché, preferisco di gran lunga essere chiamato il “poeta della tastiera” che non il “virtuoso della tastiera”. È un peccato che al giorno d’oggi la parola “virtuoso” venga associata a colui che stupisce per i suoi effetti pirotecnici. Mentre il vero virtuosismo è la padronanza dello strumento che permette di nascondere l’abilità tecnica con la varietà e la bellezza dei colori e delle sfumature. La musica è poesia… Quello che cerco di trasmettere come interprete attraverso la ricerca delle sfumature di colore che può dare il pianoforte, è l’essenza spirituale e poetica del lavoro musicale. L’immaterialità del suono va oltre le parole… E la poesia è l’arte più vicina alla musica.

Solitamente suona da solista o con le orchestre più importanti: qual è la situazione concertistica che preferisce?

Preferisco suonare in recital. Per me è il contesto migliore in cui aprirmi come interprete con la mia tavolozza di colori e sfumature. Nel recital tutto dipende da me, ho una libertà totale, non dipendo dallo stato d’animo dei musicisti e dalla volontà del direttore d’orchestra. Inoltre in un concerto ho due tempi, invece dei soliti 30-40 minuti dei concerti per orchestra e pianoforte.

Se dovesse dare un suggerimento a un giovane studente che vuole intraprendere la carriera del musicista professionista, quali consigli darebbe?

L’unico consiglio che posso dare a un giovane musicista di talento è quello di seguire il suo percorso. Perché se ha talento, è necessariamente unico e non sarà in grado di riprodurre il modello di altri.

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