[concerto streaming] AMERICAN STRING QUARTET – LILYA ZILBERSTEIN, pianoforte

Registrazione del concerto del 17 novembre 2002 al Teatro della Pergola
Archivio sonoro degli Amici della Musica di Firenze

Programma

Wolfgang Amadeus MOZART (1756-1791)
Quartetto in mi bemolle maggiore K. 428
Allegro ma non troppo / Andante con moto / Minuetto (Allegro) / Allegro vivace

Felix MENDELSSOHN (1809-1847)
Quartetto in la minore op. 13
Adagio, Allegro / Adagio non lento / Intermezzo / Finale (Presto)

Johannes BRAHMS (1833-1897)
Quintetto per pianoforte e archi in fa minore op. 34
Allegro non troppo / Andante, un poco adagio / Scherzo (Allegro) / Finale (Poco sostenuto, Allegro non troppo)

AMERICAN STRING QUARTET

Peter Winograd violino
Laurie Carney violino
Daniel Avshalomov viola
Margo Tatgenhorst violoncello

Note di sala del concerto del 17 novembre 2002
(dall’archivio storico degli Amici della Musica di Firenze)

Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791)
Quartetto in mi bemolle maggiore K. 428

Il Quartetto in programma è il terzo dei sei che Mozart scrisse a Vienna tra gli anni 1781-1785 e che dedicò all’amico e maestro Haydn. Vale la pena riportare, almeno in parte, il testo di questa celebre dedica:

Al mio caro amico Haydn

Un Padre, avendo risolto di mandare i suoi figli nel gran Mondo, stimò di doverli affidare alla protezione e condotta d’un Uomo molto celebre in allora, il quale per buona sorte era di più il suo migliore Amico. Eccoti dunque del pari, Uom celebre ed Amico mio carissimo, i sei miei figli. Essi sono, è vero, il frutto di una lunga e laboriosa fatica (…). Tu stesso amico mio carissimo, nell’ultimo soggiorno in questa Capitale, me ne dimostrasti la soddisfazione (…). Il tuo sincerissimo Amico W.A. Mozart. Vienna, il 1° settembre 1785.

La novità di queste sei opere, vera pietra miliare nella letteratura quartettistica, comincia dunque ancor prima che nella partitura proprio nel tono affettuoso e sincero di questa dedica, così lontano dalle consuete esibizioni di sottomissione a illustri e titolati personaggi. Mozart non si firma «umilissimo e devotissimo servitore» di nessuno, né tanto meno, per «profondissima venerazione», bacerà «i Salti de’ Pulci de’ Piedi de’ Cani di Sua Eccellenza», come ferocemente ironizzava Benedetto Marcello nel suo Teatro alla moda, limitandosi semplicemente a presentare queste sue fatiche, frutto davvero di un grandissimo impegno, all’illustre maestro con devozione quasi filiale. Non si conoscono peraltro particolari precisi sull’amicizia che legò i due grandi musicisti, fatta eccezione per le dichiarazioni di stima reciproca: «Vi dico dinanzi a Dio, da galantuomo», affermò Haydn una volta al padre di Mozart, «che Vostro figlio è il più grande compositore ch’io mi conosca, di nome e di persona. Ha gusto e possiede al sommo grado la scienza del comporre».

Il Quartetto K. 428 è caratterizzato da un sorprendente e insinuante cromatismo che si manifesta subito nel tema iniziale all’unisono, peraltro in seguito sciolto in una più spigliata condotta delle parti, e soprattutto nel cangiante e davvero «moderno» tessuto armonico del secondo movimento, un grande “Andante con moto” che forse è il momento più alto e un po’ il cuore pulsante di tutta la composizione. Dopo un sereno Minuetto, di nuovo il Trio, nella tonalità relativa di do minore, introduce un’ombra di sommessa malinconia, mentre il brillante “Allegro vivace” finale, nei suoi ammiccamenti ma anche nelle sue fugaci ombre, riporta agli analoghi movimenti dell’”amico carissimo” nonché dedicatario dell’opera.

 

Felix Mendelssohn (1809-1847)
Quartetto in la minore op. 13

L’opera per quartetto d’archi di Mendelssohn consta complessivamente di sei lavori completi (oltre ad una serie di quattro pezzi sciolti, raccolti come op. 81) e si può raggruppare in tre momenti: il 1827 per i primi due, op. 12 e op. 13; il 1837-38 per i tre dell’op. 44; il 1847 per l’ultimo della serie, l’op. 80, scritto sotto la dolorosa impressione della prematura scomparsa della sorella Fanny. Il primo movimento rappresenta certamente una fase creativa dalla connotazione spiccatamente sperimentale, dominata dall’appassionato e febbrile confronto con la grande eredità beethoveniana e in particolare con il Beethoven degli ultimi, enigmatici capolavori, mentre i tre dell’op. 44, a distanza di dieci anni, significano per Mendelssohn una sorta di ritorno all’ordine, un vero e proprio atto di fiducia nella più levigata ed aurea misura classica. Il Quartetto in la minore op. 13 in realtà precede cronologicamente il Quartetto op. 12, essendo stato composto nell’ottobre 1827, mentre la pubblicazione seguirà solo tre anni dopo. Il culto beethoveniano del giovane Mendelssohn si era già concentrato soprattutto sull’ultima stagione creativa del grande musicista, in particolare sulla Nona sinfonia e sui Quartetti op. 130, 131 e 132, che vengono acutamente e devotamente analizzati. La profonda emozione per la notizia della morte di Beethoven determinò la composizione di getto di un Lied – Ist es wahr, pubblicato come op. 9 n. 1 – e poche settimane più di tardi di questo Quartetto in la minore, che ne è una sorta di amplificazione formale, direttamente creata sul calco del grande Quartetto in la minore beethoveniano, l’op. 132. Scrive in proposito il diciottenne Mendelssohn all’amico musicista Lindblad: «Il Lied ha fornito il tema al Quartetto; lo riconoscerai nelle note del primo e dell’ultimo movimento, ma esso parla in tutti e quattro i movimenti».

L’aderenza al modello è evidente fin dall’inizio del Quartetto, dove una introduzione “Adagio” prelude al successivo “Allegro”, ma anche altri riferimenti beethoveniani possono essere trovati, come ad esempio al tema accordale dell’introduzione lenta della Sonata op. 81° (Les adieux); l’”Allegro” esplode quindi carico di impeto, costruendo attraverso contrasti dinamici ed esasperate tensioni armoniche una pagina di singolare, fin aspra, intensità, lontanissima dall’abituale idea di levigatezza mendelssohniana. Il «motto» tematico dell’introduzione è presente anche nel tema iniziale del secondo movimento, “Adagio non lento”, in tonalità di fa maggiore, di carattere solenne e quasi religioso, mentre l’episodio successivo, in forma di fugato, che costituisce la sezione centrale del movimento, ci riporta ad un clima dolorosamente malinconico. L’”Intermezzo” ci offre una melodia di splendida ed immediata evidenza, nel suo semplice andamento di canto popolare, mentre l’episodio intermedio, un’aerea e impalpabile danza di elfi, ci offre l’unico tratto realmente «mendelssohniano» di questa composizione. Il movimento conclusivo, “Presto”, aperto con grande efficacia teatrale, da un appassionato recitativo del primo violino su un tremolo degli altri strumenti, è forse la pagina più originale e formalmente complessa del Quartetto, nel quale la forma-sonata è trattata con grande libertà, riutilizzando gran parte del materiale tematico dei movimenti precedenti. La concezione ciclica del Quartetto – sorprendente capolavoro di un musicista appena diciottenne, certamente tra le pagine più intense e originali di tutto il repertorio quartettistico ottocentesco – è esplicitamente evidenziata nella conclusione, che ripresenta quell’introduzione lenta con cui il grande edificio musicale si era aperto.

Johannes Brahms (1833-1897)
Quintetto in fa minore per pianoforte e archi, op. 34

Opera tra le più perfette e giustamente note non solo della musica da camera di Brahms ma di tutto il panorama cameristico ottocentesco, il Quintetto per pianoforte e archi è anche un lavoro emblematico della faticosa, instancabile volontà di ricerca e di autocritica del musicista tedesco. Non diversamente infatti da altri capolavori di questo periodo centrale della creatività brahmsiana quali il Concerto per pianoforte op. 15 (concepito in un primo momento come sinfonia quindi come sonata per due pianoforti prima di giungere alla sua destinazione definitiva) e le Variazioni su un tema di Haydn (delle quali esiste una doppia versione, per orchestra e per due pianoforti), così anche il Quintetto op. 34 conobbe una tortuosa e tormentata vicenda prima di approdare alla sua definitiva dimensione strumentale. Vale dunque la pena di ripercorrere brevemente le fasi di questa gestazione. Probabilmente nell’estate del 1861 Brahms iniziò a lavorare ad un quintetto per archi (nella schubertiana formazione con due violoncelli), completato di lì ad un anno; se ne parla infatti in una lettera del settembre 1842 all’amico Albert Dietrich, e già nell’agosto Clara Schumann, fedele amica e consigliera del musicista, ne aveva avuto in visione i primi tre movimenti, riferendone all’autore in termini entusiastici. Nel novembre un altro abituale interlocutore e consigliere di Brahms, il violinista Joseph Joachim, ne ammirò incondizionatamente la struttura e le idee musicali, avanzando però qualche perplessità sull’opportunità della destinazione per soli archi. Nella primavera 1863 lo stesso Joachim organizzò un’esecuzione privata del Quintetto, in seguito alla quale l’autore di decise a trasformare il lavoro in una Sonata per due pianoforti. La prima esecuzione di questa nuova versione (che Brahms non rinnegherà e lascerà figurare nel suo catalogo accanto a quella definitiva) ebbe luogo nell’aprile 1864 a Vienna ed ebbe interpreti lo stesso autore e il celebre pianista Carl Tausig; l’esito, nondimeno, non fu convincente e Clara Schumann così ne scrisse all’autore: «Il lavoro è stupendamente grandioso, però non è una sonata, ma un lavoro le cui idee avresti potuto – e dovuto – spargere come da una cornucopia su tutta l’orchestra. Molte delle idee migliori si perdono sul pianoforte, riconoscibili solo dal musicista, senza che il pubblico possa goderne. Subito, la prima volta che lo suonammo, ebbi l’impressione di un adattamento, ma mi pensai prevenuta e non ne parlai. Però invece chiaramente Levi […]. Caro Johannes, da’ retta, rifallo ancora una volta». E Johannes dette retta e lo rifece ancora una volta: ma lasciò stare l’orchestra per restare fedele alla originale dimensione cameristica, ampliando quell’organico «misto» del quartetto con pianoforte che già aveva sperimentato con successo con l’op. 25 e 26, per ricollegarsi esplicitamente ad una formazione, già inaugurata da Schumann, quale quella che vede il pianoforte accostato al classico quartetto d’archi. Brahms vi lavorò nell’autunno 1864 e solo nel 1865 il Quintetto fu presentato in esecuzione privata a Baden davanti alla dedicataria, la principessa Anna di Hesse, questa volta finalmente con unanime e incondizionato successo.

Il Quintetto op. 34 costituisce uno dei più evidenti esempi di un procedimento compositivo caratteristico di Brahms, cioè quello di integrazione unitaria del materiale tematico attraverso i vari movimenti; ma è anche una delle opere di più ricca e profonda carica espressiva, nel quale tutte le corde più autentiche della poetica brahmsiana – dall’appassionata e nobile eloquenza alla più intima tenerezza, dalla tensione potente e drammatica alla implacabile pulsione ritmica e motoria – sono fuse insieme in una sintesi possente e perfettamente compiuta che si pone allo stesso tempo come modello di formidabile magistero compositivo e luogo di immediato, vibrante coinvolgimento emotivo.

Il primo movimento, “Allegro non troppo”, si apre con un tema all’unisono tra pianoforte e archi, che contiene in nuce le principali cellule melodiche sviluppate nel corso della composizione; il secondo tema giunge, dopo un singolare percorso armonico, nella tonalità «lontana» di do diesis minore, mentre un terzo tema (secondo una prassi consolidata nella musica da camera di Brahms) si rivela collegato melodicamente al primo. Dopo lo sviluppo e la riesposizione, un’ampia coda in tempo più calmo (“Poco sostenuto”) svolge in termini contrappuntistici il motivo iniziale su un pedale di tonica del pianoforte, per poi però concludere nei toni accesi dell’inizio. Carattere di romanza (analogo al secondo movimento del Quartetto op. 51 n. 1) troviamo nel secondo movimento, “Andante un poco Adagio”, in la bemolle maggiore, che sviluppa, nella frequente scrittura in terze e seste cara a Brahms, una cullante e statica melodia; la semplice forma tripartita include un episodio centrale nella tonalità «lontana» di mi maggiore, e quindi una ripresa variata del motivo iniziale. La cupa tonalità di do minore (che ricorda da vicino gli analoghi movimenti del Quartetto op. 25 e dei Trii op. 87 e op. 101) domina il successivo Scherzo, pagina carica di straordinaria energia e suggestione; su una cupa pulsazione del violoncello in pizzicato si dipana a poco un edificio sonoro che raggiunge vertici di bruciante energia ritmica e di possente spessore sonoro. Ancora su un pedale di un do grave al violoncello di apre il Trio intermedio, in do maggiore, questa volta però sui toni di una serena e nobile melodia. Il Finale è introdotto da una pagina in qualche modo enigmatica (“Poco sostenuto”), la cui ambiguità e instabilità armonica contribuisce a creare un clima di aspettativa e di incertezza, sciolto solo – con l’Allegro non troppo, di nuovo in fa minore – dall’ingresso del tema principale affidato al violoncello. Il carattere sommesso e velato di malinconia di questo motivo principale è compensato da quello più irruento del secondo tema, organizzato all’interno di uno schema formale complesso e originale, a metà strada tra forma-sonata e rondò; il grande edificio musicale si chiude tuttavia con un “Presto, non troppo” (dove ritroviamo all’inizio la tonalità «lontana» di do diesis minore), che riporta l’atmosfera alla bruciante inquietudine del primo movimento e ancor più dello Scherzo.

Francesco Dilaghi

[Ph. © Andrej Grilc]