MARK PADMORE, tenore – ROGER VIGNOLES, pianoforte

L’arte del canto
Turno A, B, Bpiù

SCHUBERT I: Die Schöne Müllerin (ciclo di Lieder su poesie di Wilhelm Müller)

Schubert non fu il primo a tentare la strada ambiziosa del ciclo liederistico, vale a dire non solo la composizione su versi di un unico poeta ma un’entità formale compatta, come un solo grande Lied ripartito in singole scene, organizzate secondo un logico filo narrativo e musicale. Lo aveva tra gli altri preceduto Beethoven con lo straordinario An die ferne Geliebte, op. 98, del 1816, dove già l’idea unitaria era conseguita mediante precisi rapporti tonali e brevi collegamenti pianistici tra i sei episodi. Questa strada sarà di fatto presa come esempio da tutti i principali compositori di Lieder dell’Ottocento, basti pensare a Schumann, a Brahms, a Wolf e a Mahler. Ma proprio Schubert, fin dalla composizione del suo primo Liederkreis, si mantiene del tutto indipendente rispetto alla lezione beethoveniana cercando la visione unitaria e la continuità strutturale in modo del tutto diverso.
Potrà forse giovare una breve digressione sull’autore dei testi della Schöne Müllerin, verseggiatore tutt’altro che eccelso, la cui fama si deve quasi esclusivamente per l’interesse acceso, per sotterranei ma non casuali motivi, nella fantasia schubertiana. Wilhelm Müller, nato a Dessau nel 1794, quindi tre anni prima di Schubert, studiò filologia a Berlino e partecipò come volontario alla guerra contro Napoleone, pubblicando fin da giovane poesie dal contenuto romantico e dichiaratamente antireazionario. Ciò che più ci interessa è la sua appartenenza, tra il 1816 e il ’17, a un circolo letterario giovanile, piuttosto simile alle riunioni domestiche abitualmente frequentate da Schubert. Durante queste serate, forse come lavoro di gruppo, nacquero i canti del mugnaio, ispirati a temi ricorrenti nel primo Romanticismo tedesco e, nel taglio semplice di Volkslieder, alla celebre raccolta di Arnim e Brentano Des Knaben Wunderhorn. Il ciclo, pubblicato da Müller solo nel 1821, comprendeva venticinque poesie. Schubert conobbe casualmente il libro in casa del conte Seczenyi, stando alla versione romanzesca tramandata da Kreissle von Hellborn. Comunque siano andati realmente i fatti, i primi Lieder furono composti nel maggio del 1823 e circa un anno più tardi apparve la prima edizione a stampa dedicata a Karl von Schönstein, insieme a Vogl l’interprete più sensibile delle liriche schubertiane.
Riletti oggi senza l’apporto meraviglioso della musica di Schubert, i versi di Müller mostrano fin troppo chiaramente le rughe di uno stile manierato e sospiroso. La storia del giovane mugnaio che si innamora di una fanciulla bella quanto incostante, le sue speranze e il suo malinconico ritrarsi di fronte al rivale, un cacciatore, non si discostano molto da repertorio più battuto dell’epoca, dove le impennate del primo Romanticismo già si piegano al privato intimismo e alle tenere effusioni del gusto Biedermeier. Cosa può avervi trovato Schubert fino a trarne ispirazione per la sua composizione più vasta e ambiziosa fino ad allora tentata nel genere liederistico? Certo la presenza di temi drammatici, di motivi letterari, di simboli e di suggestioni care al suo mondo poetico, le stesse ritrovate cinque anni più tardi nella Winterreise anche se estremizzate e notevolmente drammatizzate. Potremmo oggi leggere i due cicli come un unico viaggio dalla primavera all’inverno; nella Müllerin sentito come atto del presente, alla scoperta del dolore e verso la morte, nella Winterreise un girovagare a vuoto nella spirale del ricordo e del sogno, senza prospettive future. Dunque, in primo luogo il tema-simbolo del viaggio (nel primo Lied il mugnaio ci è presentato come Wanderer, un viandante), il viaggio della vita senza una meta precisa con le sue stazioni obbligate di speranze e delusioni. Altra irresistibile fonte di ispirazione è l’acqua, ancora un simbolo vitale, l’immagine dello scorrere inarrestabile del tempo, poi cristallizzato e pietrificato nel gelo della Winterreise. L’ingenua oleografia dei versi di Müller suggerisce a Schubert una galleria ideale di paesaggi, oggetti, situazioni psicologiche dietro alle quali la musica, forte della sua capacità unica di stabilire associazioni ambigue e preziose, scopre profondi temi esistenziali e significati eterni.
Schubert organizza il lavoro con straordinaria coerenza formale. Così nel ritorno cosciente e meditato a strutture strofiche dopo le conquiste di alcuni isolati Lieder precedenti. Non si tratta di un’inversione di rotta verso un genere più semplice e disimpegnato, ma dell’intuizione stilistica che vuole cogliere il carattere popolaresco dei versi, la loro saggezza immediata e campagnola come nella ballata di un cantastorie. L’unità del Kreis è assicurata non dalla scelta di una griglia formale prefabbricata come nel ciclo beethoveniano, ma nell’identificazione di figure musicali ricorrenti associate alle immagini del testo con funzione insieme descrittiva e sottilmente simbolica in un meraviglioso gioco di specchi tra realtà e fantasia, storia e sogno. Sono d’altra parte i segnali caratteristici di tutta l’opera schubertiana disseminati nei Lieder come nei Quartetti, nelle Sonate, nelle Sinfonie: la rappresentazione dell’acqua (ma anche il trascorrere della vita e del tempo) in rapide figurazioni di sedicesimi, l’alternanza e spesso l’interscambiabilità del rapporto maggiore-minore, il contrasto tra ritmi puntati e terzine, gli effetti di eco al termine della frase, immagini della natura e riflessi di un sentimento interiore.
Non deve trarre in inganno il paesaggio sonoro spesso ridente, il rincorrersi festoso di ritmi “acquatici”, l’effusione appagante dell’inventiva melodica, l’evocazione negli accompagnamenti di Ländler e Jodler, di fisarmoniche e cetre rustiche: l’atteggiamento di Schubert non cede mai alla maniera del disimpegno salottiero, alla gratuita ricreazione del popolare. Dietro l’abbandono lirico e l’estasi panica dei primi canti già si cela la delusione bruciante degli ultimi, né mancano oasi di introspezione psicologica e vere anticipazioni degli abissi agghiaccianti della Winterreise, e dello Schwanengesang. Due soli tra i molti esempi possibili: Die liebe Farbe e il conclusivo Des Baches Wiegenlied. Nel primo c’è il suggerimento del testo col colore favorito della ragazza, il verde della giovinezza e della primavera, del nastro del liuto appeso alla parete, ma anche del vestito del cacciatore, che Schubert traduce nel simbolo allucinato di un fa diesis ribattuto lungo tutto il pezzo: pensiero corre al Wegweiser della Winterreise ma anche al Preludio in mi minore di Chopin. Nell’ultimo il ruscello, deuteragonista onnipresente nella piccola tragedia, si offre di accogliere il mugnaio nelle sue acque e culla la sua malinconia con una ninna-nanna. Il sentimento della morte e dell’oblio, del dolce annegamento caro a tutto il Romanticismo, trova nell’interpretazione di Schubert tratti esemplari e profetici. I corni lontani evocati dall’introduzione pianistica e il caratteristico andamento di marcia della seconda parte recano i segni inconfondibili della civiltà musicale austriaca da Mozart a Berg; il tono di rassegnazione e di confidenza con la morta intesa come distacco doloroso e nostalgicamente dolcissimo dalla terra sono gli stessi di tanti commiati mahleriani, dal Wunderhorn a Der Abschied.
Il canto del torrente, in un modo maggiore ormai pacificato e impersonale, sembra aprirsi su un infinito sconsolatamente immobile. La ripetizione ossessiva delle strofe accompagnate da un ritmo ostinato, come il rintocco di una campana, siglano il congedo del mugnaio viandante, lo allontanano con effetto di dissolvenza, lo fanno scomparire nella natura. Il viaggio riprenderà dallo stesso punto dove è stato interrotto col Gute Nacht della Winterreise in un paesaggio completamente mutato.

Nota di programma da cura di Giuseppe Rossi.
Programma di sala del 27 aprile 2014, Archivio storico degli Amici della Musica di Firenze