A colloquio con Alessandro Carbonare

Il programma che presenterà agli Amici della Musica il 21 gennaio 2018, con Perla Cormani e Luca Cipriano, è una sorta di viaggio spazio-temporale: infatti, si alternano brani che sono stati scritti a grande distanza di tempo, come quelli di Mozart, Poulenc e Corea. Proporrà anche lavori distanti geograficamente, come la musica brasiliana e quella di tradizione klezmer. Come è nato questo programma così variegato?

Tutti i miei programmi sono variegati. In genere quando mi danno carta bianca sanno già che succederà sempre qualcosa. È raro che io faccia un programma monografico, soprattutto in una formazione come quella che comporta ben tre clarinetti non è difficile variegare il programma. Il clarinetto è uno strumento che passa da Mozart, appunto, al klezmer, alla musica brasiliana. Quindi io quando posso ci metto dentro tutto, come una bella insalatona estiva.

Uno dei suoi interessi è la ricerca di nuovo repertorio per il clarinetto. Ha commissionato, infatti, brani a Ivan Fedele, Salvatore Sciarrino, a Luis De Pablo e altri ancora. Ci sono altri autori con cui le piacerebbe collaborare in futuro per nuovi lavori?

In realtà è da un po’ che non commissiono nuovi lavori perché divulgare nuovi lavori è complicato in questo periodo. Mi piacerebbe lavorare con giovani compositori quindi credo che dalla prossima stagione, anche per questa formazione che sentirete il 21 gennaio (!) ci sarà qualche cosa di nuovo che verrà alla luce. Per il momento è ancora presto.

Ha collaborato con Claudio Abbado per quanto riguarda i progetti di diffusione dell’educazione musicale in Sud America, come il progetto della Orquesta Sinfónica Simón Bolívar e altre orchestre infantili. Cosa le ha trasmesso questa esperienza?

Si tratta di un progetto che esiste da più di quarant’anni e che ha salvato la vita a tantissimi ragazzini che altrimenti sarebbero finiti sulla strada. Un progetto di un’importanza incredibile perché dimostra non solo che la musica è bella, diverte, rilassa e fa calmare le onde cerebrali, ma può anche salvare la vita. E non è poco. Entrare a contatto con questi ragazzi che fanno musica non solo per divertimento, ma anche perché potrebbe essere davvero la loro salvezza, è diverso da insegnare ai ragazzi delle nostre parti che problemi di salvarsi la vita non ne hanno. È proprio un’esperienza molto forte, molto profonda, che mi ha segnato per sempre e che non vedo l’ora di rifare. Sono parecchi anni che non torno in Venezuela e sinceramente mi piacerebbe ritornarci.

Alla carriera concertistica affianca un’intensa attività didattica: incontrando molti giovani, qual è il consiglio che si sente di dare ai musicisti che stanno iniziando una carriera professionale?

Quello di studiare tantissimo. Lo so, sembra un consiglio scontato, ma non lo è. Oggi i ragazzi sono abituati ad avere tutto in fretta, a parlare con gente che sta dall’altra parte del mondo, a connettersi velocemente, a fare tutto con una velocità incredibile. Devono capire che nella musica nulla si ottiene velocemente. È qualche cosa che richiede una grandissima pazienza, tanto studio e tante ore di studio. Quindi non sono i gigabyte di velocità che contano nella musica classica ma la quantità di ore passate a rifare magari cento volte lo stesso passaggio. Questo faccio molta fatica a farlo capire ai ragazzi che studiano con me perché sono abituati in altro modo. Per dirne una, quando studiano hanno sempre il cellulare acceso e ogni dieci secondi rispondono a un whatsapp o a un sms. Non riescono a stare concentrati su quello che fanno. Noi, che non avevamo whatsapp, per lo meno, quando si studiava, si studiava davvero con la testa lì. Adesso vedo che non è più così, la testa sta in cento posti diversi. Quindi non c’è la stessa concentrazione che c’era ai nostri bei vecchi tempi. Parlo come un vecchiaccio, ma è così.

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